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AL VOLANTE E A DIGIUNO DIVENTIAMO TUTTI PIU’ AGGRESSIVI… VI SIETE MAI CHIESTI PERCHE’?

Quando siamo alla guida di un’auto, diventiamo più aggressivi e talvolta anche inaspettatamente violenti. Vi siete mai chiesti perché?

Lo stress al volante e il conseguente sfogo con reazioni aggressive è tra i casi più studiati dagli etologi di violenza urbana. Tanto che è stato dato un nome tecnico alla questione: road rage (rabbia da strada). Secondo gli psicologi evoluzionisti, questo tipo di collera segue uno schema: inizia sempre con insulti e minacce verbali e gestuali, spesso enfatizzati da fari e clacson.

Per fortuna, solitamente, ci si ferma qui. L’auto è una scatola protettiva, e visto che gli esseri umani rifuggono il contatto con gli sconosciuti, difficilmente scendono dal veicolo. Ma ci sono situazioni limite: una di queste è la violazione delle norme implicite della convivenza cittadina. Ci si può infuriare, per esempio, per un parcheggio rubato e perché la mancata cortesia da parte dell’altro automobilista viene vissuta come un’ingiustizia che va vendicata.

Nella nostra specie la vendetta non è solo punitiva ma è spesso soprattutto riparativa: serve a ricomporre l’ordine sociale. E per questo non si esita a metterla in atto, costi quel che costi.

QUANTO E’ DIFFUSA LA ROAD RAGE

Secondo studi internazionali oltre il 50% degli automobilisti è stato coinvolto in almeno un episodio di rabbia al volante. E anche se il 70% di coloro che li hanno provocati è consapevole di aver generato problemi a guidatori o passanti, solo il 14% mostra qualche forma di pentimento, gli altri danno a se stessi l’alibi del cattivo umore.

In fondo, è proprio così: l’aggressività in auto dipenderebbe proprio dal sovraccarico cognitivo, vale a dire dall’attenzione ai numerosi segnali necessari per guidare che attivano nel nostro cervello le stesse aree che, fino a qualche migliaio di anni fa, si attivavano nelle situazioni in cui si poteva incontrare un predatore in agguato.

Gli studi hanno dimostrato che i più soggetti alla road rage sono giovani uomini che vivono in centri urbani oltre i 10 mila abitanti, soprattutto se ulteriormente stressati per ragioni di lavoro.

TIGRI DI CITTA’

Il road rage è soltanto il caso più studiato di reazioni aggressive in caso di stress. Ce ne sono molti altri e tutti legati all’ambiente urbano. Le auto che incrociamo da ogni lato sono come tigri dai denti a sciabola in agguato nella boscaglia.

Gli appartamenti nei grandi condomìni sono rifugi in cui si riuniscono clan pronti ad affrontarsi tra loro. La metropolitana affollata è come la gabbia in cui circolano i topi di laboratorio, con la differenza che mentre i topi a disagio arrivano ad azzannarsi tra loro, noi ci limitiamo a desiderare che la nostra fermata arrivi presto, e in qualche caso non esitiamo a menare qualche gomitata per difendere pochi centimetri residui di spazio.

Nessuna esagerazione: lo dicono etologi e psicologi sociali. La città è una giungla. O meglio, un ambiente al quale la specie umana non si è ancora completamente adattata, capace di stimolare i nostri peggiori istinti (le reazioni aggressive).

Siamo infatti programmati per vivere in piccoli gruppi all’interno dei quali si formano forti legami sociali, proprio come avviene ancora oggi nelle comunità di cacciatori-raccoglitori, ma anche nei paesini di campagna dove tutti si conoscono. Peccato che oltre la metà della popolazione mondiale viva però in centri urbani medio-grandi. È quindi normale che le situazioni di affollamento in cui l’individuo è costretto a convivere con sconosciuti, nei confronti dei quali ognuno di noi nutre un’istintiva diffidenza, diventino a rischio.

In città quindi non sbagliamo se diciamo che diventiamo più pericolosi.
Le ricerche (come quelle appena citate sulla road rage) dimostrano che la ragione è che gli urbanizzati sono molto più stressati. Anzi, secondo i ricercatori dell’Università di Mannheim (Germania), lo stress da città lascia un marchio nel cervello.

Se si mettono delle persone in condizioni di stress sociale, infatti, una piccola zona cerebrale (l’amigdala) si attiva di più se la persona è cresciuta in città. E si attiva di più anche la corteccia cingolata anteriore. L’amigdala è una struttura cerebrale grande come un pisello che si trova in entrambi i lobi temporali, in profondità, e svolge la funzione di sensore del pericolo, provocando una reazione nell’organismo non appena viene percepita una minaccia. La corteccia cingolata è anch’essa coinvolta nell’elaborazione della risposta al pericolo. Risposta che, ovviamente, può essere aggressiva.

COME LA METTIAMO CON IL CIBO?

A renderci più reattivi e aggressivi è anche la fame. Non a caso, tutti, se costretti al digiuno, diventiamo intrattabili. La colpa però non è vostra: a provocare parte delle scenate e urla isteriche in orario da pasto sono i bassi livelli di glucosio nel sangue.

Il controllo degli stimoli aggressivi richiede energia, e il glucosio è l’unica fonte energetica accettata dal nostro cervello. Se non ne produciamo abbastanza, la rabbia ha la meglio sulle buone maniere: è scientificamente dimostrato.

In un recente studio, i ricercatori della Ohio State University hanno monitorato i livelli di aggressività di entrambi i membri di 107 coppie di coniugi per tre settimane. Ai soggetti sono state fornite bamboline voodoo con 51 spilloni, per rappresentare la “dolce” metà, ed è stata data la possibilità di assordare il coniuge con rumori più o meno molesti. Chi aveva livelli di glucosio nel sangue più bassi ha inflitto più punture nelle bambole, e torturato il partner con rumori più lunghi e fastidiosi, di chi mostrava livelli di zucchero nella norma.

Altre ricerche hanno dimostrato, per esempio, che chi beve limonata zuccherata si comporta, nei minuti seguenti, in modo più pacifico di chi ha bevuto un placebo. Molto dipende, naturalmente, anche dalla velocità e dall’efficienza con cui l’organismo metabolizza il glucosio. Ecco perché, a parità di ore di digiuno, alcuni risultano più simpatici di altri.

TUTTA COLPA DEI NEURONI

Nello specifico della rabbia i ricercatori del Karolinska Institutet in Svezia hanno individuato il gruppo di neuroni che fa scattare i comportamenti aggressivi… nei topi.

In realtà oltre ad averli scoperti, sono riusciti a manipolarli, arrivando a controllare il comportamento dei roditori.

I ricercatori svedesi hanno rivolto la loro attenzione a un piccolo gruppo di neuroni, quelli del nucleo premamillare ventrale, dell’ipotalamo, la centralina del cervello che controlla molti degli istinti legati ai bisogni fondamentali, dal sonno all’appetito. Sarebbero proprio queste cellule a svolgere un ruolo chiave nei comportamenti aggressivi.

Studiando le interazioni tra topi maschi, gli scienziati avevano già notato che gli animali che si dimostravano più aggressivi verso un nuovo compagno messo nella loro gabbia erano anche quelli che avevano una maggiore attività nei neuroni del nucleo premamillare ventrale dell’ipotalamo.

Usando tecniche di optogenetica, che consentono di “accendere” o “spegnere” particolari gruppi di cellule in topi geneticamente modificati, gli scienziati sono anche riusciti a controllare questo comportamento, rendendo aggressivi i topi anche in situazioni in cui normalmente questi animali non attaccano, o al contrario “calmandoli” quando l’aggressione era già scattata.

Non solo. Per studiare la dominanza sociale si utilizza il  cosiddetto “test del corridoio”, in cui due topi vengono fatti avanzare uno verso l’altro in un tubo stretto, per determinare qual è quello più in alto nella gerarchia. Controllando i neuroni del nucleo premamillare, i ricercatori sono riusciti a scambiare la gerarchia, e a trasformare il topo dominante in subalterno e viceversa.

Conoscendo meglio i comportamenti legati all’aggressione si potrà arrivare un giorno a controllarla? Questa è la domanda a cui la scienza non ha ancora una risposta, ma che interessa tutti, in un modo o in un altro. Aggressori e aggrediti, automobilisti e pedoni, chi è calmo e chi è sempre sotto stress. Nel frattempo, ci possiamo sempre sfogare su bamboline voodoo, sapendo che almeno lì danni non ne facciamo…

C’ERA TANTA GENTE, NON POTEVA ACCADERMI NULLA. INVECE SONO MORTO! Le strategie da mettere in atto in caso di emergenza e pericolo

New York. Un caso di omicidio come tanti: una giovane donna viene aggredita e uccisa nella strada di casa mentre è di ritorno, a tarda notte, dal lavoro.

La storia sarebbe finita lì se non fosse che il delitto non è stato nè silenzioso nè rapido, bensì tormentato, rumoroso e soprattutto pubblico. L’aggressore ha assalito e colpito la donna 3 volte in mezz’ora, prima di ridurla al silenzio e 38 vicini di casa hanno assistito alla scena dalle finestre delle proprie abitazioni senza far nulla, tanto meno chiamare la polizia.

OMERTA’, PAURA O INDIFFERENZA?

Perché nessuno dei trentotto spettatori si è preoccupato di intervenire per aiutare la ragazza?

Diverse sono state le ipotesi formulate, ma nessuna è sembrata coerente con la situazione. Fino a che due psicologi sociali Latané e Darley hanno trovato la soluzione: “nessuno era intervenuto non, come era stato detto, benchè ci fossero 38 testimoni oculari, ma proprio per questa ragione, perchè c’era tanta gente a guardare”.

Bizzarra conclusione? Non direi proprio…

Due sono le ragioni per cui chi assiste a casi di emergenza difficilmente interviene se ci sono altre persone. La prima è facilmente deducibile: la responsabilità personale di ciascuno si diluisce e mentre ognuno pensa che sia già intervenuto o stia per intervenire qualcun altro, non fa nulla. La seconda è psicologicamente più complessa e fondata sul principio di riprova sociale: l’emergenza spesso non è così evidente, la persona sdraiata a terra ha avuto un malore o è un ubriaco che dorme? I colpi che si sentono sono spari reali o tubi di scappamento? Le urla che arrivano dalla casa accanto sono conseguenti a una aggressione o a un litigio fra coniugi? Cosa sta succedendo?

“In momenti di incertezza la tendenza naturale è guardarsi intorno per capire come si comportano gli altri e dagli altri capire se è un’emergenza o no – spiega lo psicologo Robert Cialdini -. Quello che però si dimentica è che anche tutti gli altri che osservano l’evento sono in cerca della stessa riprova sociale. E siccome in pubblico a tutti piace apparire tranquilli ci limiteremo a brevi occhiate con la conseguenza che ognuno vedrà che nessuno degli altri si scompone e non interpreterà l’episodio come un caso di emergenza”.

L’idea quindi di essere al sicuro nella folla è del tutto errata: la probabilità di ricevere un soccorso tempestivo è migliore quando è presente un unico spettatore. Ma…

PERCHE’ E’ IMPORTANTE AVERE PAURA?

Prima di proseguire oltre e capire quali comportamenti è meglio adottare per mettersi al sicuro in situazioni come questa, non possiamo non soffermarci su un’emozione tanto antipatica quanto necessaria: la paura.

Quella che si manifesta in situazioni di emergenza e di incertezza.

Quella che ha provato la povera vittima e quella che hanno rifiutato di provare i 38 spettatori, preferendo credere che fosse tutt’altro che un atto di violenza quello che si stava consumando nel giardino di casa, dove tutti i giorni i loro figli, famigliari e amici passano per andare a scuola, al lavoro o anche solo per portare a spasso il cane.

Alle origini, il ruolo della paura era più importante di quanto lo è oggi: stretti nelle grotte, nel buio della notte e con il lieve lucore del fuoco, il pericolo era in agguato in ogni angolo e in caso di bisogno il corpo del primitivo doveva reagire prima della sua mente. Era questione di vita o di morte, di essere azzannati da un predatore sbucato dal nulla o di sfuggirgli, oppure anche semplicemente capire se il tuono di un temporale non portava niente di buono e fosse quindi meglio mettersi al riparo o meno.

Però per conoscere meglio il ruolo che ha questa emozione così poco addomesticabile, dobbiamo considerarla dalla prospettiva contraria: cosa accadrebbe se non avessimo paura.

NON AVERE PAURA, MI RENDE PIU’ FORTE?

Aveva 10 anni, Mary, quando si ammalò: alcune parti del suo corpo, compresa l’amigdala, si calcificarono prima di distruggersi. Il suo comportamento cambiò drasticamente, come quella sera che si ritrovò a camminare in una strada deserta che costeggiava un parco immerso nel buio.

All’improvviso l’attenzione della bambina venne attirata da un uomo, seduto su una panchina, con addosso abiti sporchi e atteggiamenti poco rassicuranti. Mary gli si avvicinò e in un attimo si ritrovò con un coltello puntato alla gola e la minaccia di venir ammazzata. Non mostrò timore, anzi rispose all’aggressore: “Sappi che se stai per uccidermi, dovrai vedertela prima con gli angeli del Signore”. La reazione fu così sconcertante che l’uomo lasciò andare la bambina.

A questo punto l’equipe del neuropsicologo Feinstein, da cui la bambina era in cura, decise di approfittare di Halloween, per portare Mary al Waverly Hills Santorium, nel Kentucky, un vecchio ospedale abbandonato. La struttura si trasforma ogni anno in una casa del terrore progettata con uno spaventoso realismo, e con una cura dei dettagli senza paragoni. Mentre il gruppo di scienziati arrancava nel panico, Mary si lanciava nei corridoi bui del sanatorio, incurante di ragni, serpenti e di tutte quelle cose che ai bimbi procurano incubi e terrore.

La malattia genetica di cui è affetta Mary la priva della capacità di avere paura. Eppure provare paura è vitale. Non provassimo quella fastidiosa e talvolta terrorizzante sensazione, non saremmo sopravvissuti nel corso dell’evoluzione. La paura è la reazione emotiva che si prova davanti a un pericolo, un attacco o una minaccia. Responsabile delle reazioni legate alla paura, alla gestione della rabbia e al riconoscimento dei pericoli è l’amigdala, una piccola parte del cervello a forma di mandorla (a cui deve il nome), situata sotto la corteccia del lobo temporale.

La paura è una emozione e come ogni emozione ha la funzione di valutare costantemente quello che ci accade intorno, permettendoci di reagire nel modo più opportuno; in qualunque situazione di confronto, il sistema emotivo calibra il nostro atteggiamento in rapporto al flusso di dati in arrivo e insieme regola il corpo preparandoci all’azione.

LA CONVINZIONE ERRATA DI ESSERE AL SICURO NELLA FOLLA

Ora che sappiamo che la paura può davvero salvarci la vita, riguardiamo il tragico fatto di cronaca avvenuto a New York, questa volta dalla parte dello spettatore.

L’assunto a cui sono arrivati i ricercatori è che l’idea di essere al sicuro nella folla è del tutto errata: la probabilità di ricevere un soccorso tempestivo sono migliori quando è presente un unico spettatore.

Per giungere a questa conclusione Darley e Latané hanno inscenato casi di emergenza sotto gli occhi, ignari, di spettatori isolati o in gruppo. In un caso uno studente fingeva una crisi epilettica: dei passanti isolati, l’85% interveniva a dargli soccorso, contro il 31 per cento se erano presenti cinque persone.

Come scritto in apertura, è difficile attribuire all’apatia o all’indifferenza quel comportamento: la spiegazione va cercata altrove.

In un altro esperimento veniva fatto filtrare del fumo da sotto una porta: dei passanti isolati, il 75% dava l’allarme, contro il 38% se i testimoni erano tre, il 10% se nel gruppo di tre c’erano due complici del ricercatore che passavano facendo finta di niente.

La situazione cambia quando invece i presenti non sanno con certezza cosa stia succedendo. In questo caso la vittima ha più probabilità di ricevere aiuti e soccorsi anche da un gruppo.

COME AGIRE IN CASO DI NECESSITA’

Conoscere come reagisce un gruppo di persone, può salvarci la vita. Se la giovane vittima di New York avesse saputo che i coinquilini non sarebbero intervenuti non per crudeltà, ma per incertezza (non sapendo se fosse davvero il caso di intervenire e a chi toccasse), le avrebbe permesso di mettere in atto azioni ben diverse.

Immagina di essere andato a fare una corsetta a sera tarda, per approfittare del fresco, ad un tratto senti un dolore che si irradia al braccio sinistro e al petto. Ti siedi su una panchina per darti il tempo di riprendere fiato, mentre gruppetti di persone ti passano davanti senza vederti. Senti che qualcosa non va, pensi a un infarto o a qualche disturbo poco simpatico. Le persone continuano a passeggiare incuranti e i pochi che possono aver notato qualcosa di strano in te, osservano gli altri in cerca di una riprova sociale, ma vedendo che nessuno fa nulla, proseguono nella loro passeggiata certi che tutto vada bene.

Cosa è utile fare per attirare l’attenzione dei passanti e ricevere soccorso?

  1. Non perdere tempo. Se il problema di salute è grave, non si può correre il rischio di perdere conoscenza prima di chiedere aiuto.
  2. Non urlare o gridare. Possono, questi atti, richiamare l’attenzione ma non sono sufficienti a far capire agli astanti che si tratti di una vera emergenza. Potrebbe essere il gesto di un uomo sudato e un po’ folle in cerca di attenzione…
  3. Dì con chiarezza “aiuto” e il tipo di bisogno di aiuto di cui hai bisogno. “Aiuto, ho bisogno di un medico”. La parola “aiuto” da sola, non basta. Occorre specificare il tipo di aiuto di cui si necessita o non verrà preso in considerazione se gli avventori sono intenti a fare altro o se avessero paura.
  4. Individua una persona fra la folla e dagli un ordine: “Lei, signore, con la giacca rossa, chiami un’ambulanza”. In questo modo, metterai quella persona nel ruolo di “soccorritore”, e lui saprà che c’è una emergenza e che tocca a lui fare qualcosa. Non ad altri, proprio a lui. Tutti gli esperimenti condotti indicano che il risultato di una richiesta formulata in questo modo attiverà un’assistenza efficace.

La strategia migliore è quella di ridurre le incertezze degli spettatori, formulando una richiesta precisa, rivolta a una singola persona individuata nel gruppo. Insomma, occorre assegnare il compito di attivare i soccorsi a una persona specifica, altrimenti il pensiero di gruppo sarà quello di credere che altri debbano mettersi in moto, o stiano per farlo o lo abbiano già fatto. Mentre tu agonizzante, potresti perdere minuti preziosi.

Agire in questo modo, fa sì che l’aiuto si faccia contagioso. Vedendo che una persona si attiva per chiamare l’ambulanza, tutte le altre si fermeranno per dare il loro aiuto. Così facendo non solo avrete risolto una situazione che si poteva fare pericolosa, ma avrete fatto in modo di far lavorare a vostro vantaggio il principio della riprova sociale.