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FAKE NEWS: EVITARLE NON E’ DIFFICILE COME SEMBRA. ANCHE QUANDO SI TRATTA DI CORONAVIRUS

E’ difficile contare le fake news che girano intorno al coronavirus (e non solo…). Così tante che è difficile riuscire a districarsi e capire ciò che ha fondamento da ciò che non lo ha. Ciò a cui bisogna credere e a cosa no. Come comportarsi, a cosa fare attenzione e se è davvero il caso di allarmarsi o meno.

Infatti, dati alla mano, il 48% degli italiani dichiara di aver creduto almeno qualche volta nell’ultimo anno ad una notizia che poi si è rivelata falsa, e di questi addirittura un terzo l’ha condivisa sui social, contribuendo quindi all’inarrestabile diffusione delle bufale.

LA PAROLA ALLA PSICOLOGIA SOCIALE

Perché fake news, teorie complottiste e credenze manifestamente illogiche continuano a diffondersi e sono così difficili da estirpare?

La spiegazione ce la dà la teoria della dissonanza cognitiva, elaborata negli anni ’50 dallo psicologo sociale Leon Festinger.

Quando una persona attiva due idee o comportamenti che sono tra loro coerenti, si trova in una situazione emotiva soddisfacente (consonanza cognitiva); al contrario, se le due rappresentazioni sono tra loro contrapposte o incompatibili si troverà a vivere una difficoltà nel decidere e giudicare.

Tale incoerenza produce una dissonanza cognitiva, che l’individuo cerca automaticamente di eliminare o ridurre a causa del marcato disagio psicologico che comporta; questo porta all’attivazione di vari processi elaborativi, che permettono di compensare la dissonanza. E tutto questo, senza alcun nesso con l’appropriatezza o la bontà del risultato finale: ciò che conta è semplicemente ritrovare un senso di coerenza interna.

Un esempio si può avere quando una persona disprezza esplicitamente i ladri, ma compra un oggetto a un prezzo troppo basso per non intuire che sia di provenienza illecita. Secondo Festinger, per ridurre questa contraddizione lo stesso individuo potrà smettere di disprezzare i ladri (modificando quindi l’atteggiamento), o non acquistare l’oggetto proposto (modificando quindi il comportamento). O addirittura indignarsi perché si autoconvince che qualcuno – specificato oppure no – deve averlo ingannato al proposito (modificando quindi le sue opinioni sul contesto).

UN MECCANISMO DIABOLICO

In un famoso studio, Festinger si infiltrò in una setta guidata da Dorothy Martin, una casalinga che profetizzava un’apocalittica inondazione in cui lei e i suoi seguaci sarebbero stati salvati su dischi volanti da uomini dallo spazio chiamati i Guardiani. Inutile dire che nessun uomo dello spazio si manifestò al momento indicato dalla profetessa, che però continuò a rivedere le sue previsioni.
Gli extra terrestri non si erano presentati nel giorno previsto, ma senza dubbio sarebbero arrivati l’indomani, e così via. I ricercatori guardavano affascinati mentre i credenti continuavano a credere – nonostante tutte le prove a sfavore – e anzi raddoppiavano il loro zelo nel fare proseliti. Un meccanismo “diabolico” che può essere applicato per comprendere certi fenomeni di massa.

NESSUNO E’ IMMUNE

Tornando alle fake news, non sbagliamo se diciamo che non risparmiano nessuno. Maggiormente inclini a credere alle fake news, sono le persone che risultano anche più facile preda delle mode relative alle novità, più dipendenti dall’approvazione sociale, ma soprattutto meno sicure e soddisfatte di sé e più lontane e scettiche nei confronti della ricerca scientifica.

L’ILLUSIONE DI MOSE’

Perchè siamo così facili vittime di fake news e bufale? Prima di cercare la risposta, provate a rispondere a questa semplice domanda: Quanti tipi di animali portò Mosè nell’arca?

Se state tirando ad indovinare, non sforzatevi, anzi rileggete la domanda. Con un po’ di attenzione noterete che l’arca non era di Mosè, bensì di Noè. Semplicemente l’idea degli animali che vanno nell’arca, crea nel nostro cervello un contesto biblico e Mosè non risulta anomalo in tale contesto. Non è qualcosa che uno si aspetta, ma vedere associata l’arca a quel nome non è sorprendente.

Questo fenomeno è conosciuto come “Illusione di Mosè”.

Sono diversi gli studi di psicologia cognitiva che dimostrano che siamo naturalmente portati a dare per sicuro quello che leggiamo, senza sentire l’esigenza di verificarlo. In pratica, il nostro cervello non è progettato per riconoscere al volo le bufale, cioè non utilizza sempre tutte le informazioni in suo possesso per distinguere la verità da una menzogna.

C’è poi anche il marketing a complicarci la vita: se qualcosa, in questo caso una notizia, “ci piace”, sarà più semplice considerarla valida. Perché siamo esseri umani fatti di razionalità ed emotività, ma è l’area del cervello deputata a quest’ultima la prima ad attivarsi di fronte a un impulso, e con essa quei bias di conferma verso le fonti che ci assecondano, alla ricerca di una coerenza narrativa molto difficile da scalfire una volta formatasi.

Si tratta dunque di meccanismi quasi “automatici” che spesso ci portano a dare per buono quello che leggiamo, facendoci incappare nella trappola della notizia falsa.

COME DIFENDERSI DALLE FAKE NEWS

  • Non crederci. A meno che non siate esperti della materia, la nostra prima e più importante arma di difesa è restare scettici su quello che leggiamo da internet e soprattutto dai social. Prima di crederci, ricordiamo che chiunque, senza alcun vincolo, può pubblicare notizie su internet e spacciarsi per esperto.
  • Controlla le fonti. Se, nonostante tutto, la notizia ci sembra “probabile”, verifichiamo che sia riportata anche su altre fonti, e verifichiamo che quelle fonti siano attendibili. Una notizia clamorosa o importante non può non essere riportata dalle principali agenzie stampa. A volte, poi, basta uno sguardo attento al link del sito d’origine.
  • Controlla i link sui social. Se nel link della notizia leggiamo “coriere.it”, siamo consapevoli che non stiamo leggendo una notizia del Corriere della Sera (il cui sito è corriere.it). Si tratta quasi sicuramente di qualcuno che vuole “spacciarsi” per la nota testata. Una volta capito questo, possiamo già valutare in autonomia quante possibilità ci sono che si tratti di una fake news….
  • Nessuno ci regala nulla. iPhone super nuovo a 99 euro? Non speriamoci, si tratta semplicemente di qualcuno che vuole “farci cliccare” sul proprio link per guadagnare qualche centesimo. Nessuno ci venderà mai il nuovo iPhone a 99 euro in un negozio, perché dovrebbero mai farlo su internet?
  • Fai una ricerca online prima di condividere. Inserisci le keyword relative a una notizia in un motore di ricerca. In molti casi appariranno prima i risultati di testate giornalistiche reali, che riveleranno la verità sulla vicenda. È comunque sempre consigliabile cercare informazioni su siti affidabili.
  • Consulta siti web dedicati al debunking. Esistono diversi siti creati appositamente per smascherare le fake news: una pratica detta “debunking”. Tra i più noti in Italia troviamo Butac.it (“Bufale un tanto al chilo”) e Bufale.net. Pubblicano regolarmente articoli che rivelano la verità dietro alle bufale del momento. Al loro interno è possibile anche consultare “black list” dei siti web che diffondono fake news.

CYBERBULLISMO: QUANDO LE PAROLE UCCIDONO

Un ragazzo su tre dice di essere stato vittima di atti di bullismo online, 1 su 5 di aver lasciato la scuola proprio per questo. E’ il risultato di un sondaggio condotto dall’Unicef su un campione di 170mila ragazzi fra i 13 e i 24 anni di 30 diversi Paesi, che ha allarmato il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia e i partner della ricerca.

Parlando apertamente e in anonimato attraverso la piattaforma Unicef per il coinvolgimento dei giovani (U-Report), tre quarti degli adolescenti hanno dichiarato che i social network, fra cui Facebook, Instagram, Snapchat e Twitter, sono i luoghi in cui si verifica più comunemente il bullismo online. “Avere classi ‘connesse’ significa che la scuola non finisce più quando l’alunno esce dall’aula, e, sfortunatamente, non finisce nemmeno il bullismo scolastico”, ha dichiarato il Direttore generale dell’Unicef Henrietta Fore. “Migliorare l’esperienza formativa dei giovani significa dar conto dell’ambiente che incontrano, sia online sia offline. In tutto il mondo, i giovani ci stanno dicendo che sono stati bullizzati online, che ciò sta colpendo la loro istruzione e che vogliono che finisca”.

E anch’io, nel mio piccolo, non potevo non parlare di un fenomeno tanto dilagante, essendo febbraio il mese della sensibilizzazione e in particolare il 7 febbraio la Giornata Nazionale contro bullismo e cyberbullismo.

Solo nelle scuole secondarie di Roma, la città in cui sono nato e cresciuto, su un campione di 1022 studenti, è emerso che il 66,9% dei giovani è stato, almeno una volta, vittima di bullismo e che l’81.3% è stato spettatore. Il 57,3% delle vittime afferma di aver subito episodi di violenza all’interno della classe; il 34,9% all’interno degli istituti scolastici.

Difficile non riflettere su quanto bullismo e cyberbullismo siano piaghe sociali dilaganti.

IL BULLISMO

Il termine bullismo è utilizzato per designare un insieme di comportamenti in cui qualcuno, ripetutamente, fa o dice cose per avere potere su un’altra persona e dominarla.

Il bullo è caratterizzato da:

  • trova piacere nell’insultare, picchiare o cercare di dominare la vittima, anche quando è evidente che stia molto male ed angosciata
  • continua per un lungo periodo, con una progressiva crescita delle violenze che fa diminuire la stima di sé da parte della vittima
  • ha un maggior potere della vittima a causa dell’età, della forza, del genere (il maschio è più forte della femmina) o della popolarità nel gruppo di coetanei

Esistono, dunque, due forme di bullismo:

  • diretto, che a sua volta si divide in fisico (pugni, calci, sottrazione di oggetti con l’intento di rovinarli) e verbale (derisione, insulti, prese in giro, messa in evidenza degli aspetti razziali, dell’orientamento sessuale ecc.)
  • indiretto, tramite la diffusione di pettegolezzi fastidiosi o storie offensive, l’esclusione dai gruppi di aggregazione, ecc.

IL CYBERBULLISMO

Il cyberbullismo è un atto aggressivo, intenzionale condotto da un individuo o un gruppo usando varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel tempo contro una vittima che non può facilmente difendersi. Ha caratteristiche identificative proprie: il bullo può mantenere nella rete l’anonimato, ha un pubblico più vasto, ossia il Web, e può controllare le informazioni personali della sua vittima.

Nel 2006, la direttrice del Center for Safe and Responsible Internet Use statunitense, Nancy Willard, ha proposto una categorizzazione del fenomeno, basata sul tipo di comportamento. Le tipologie di cyberbullismo individuate sono sette, e sono attualmente prese in considerazione per distinguere i vari casi:

  • flaming: invio di messaggi volgari e aggressivi tramite gruppi online, email o messaggi, con l’unico scopo di creare conflitti verbali all’interno della rete fra due o più persone. Flame è un termine inglese che vuol dire fiamma, da cui deriva il comportamento di “accendere” una discussione verso una o più persone
  • harassment: molestie effettuate tramite canali di comunicazione con azioni, parole e comportamenti persistenti verso una singola persona, che causano disagio emotivo e psichico, creando una relazione sbilanciata tra il cyberbullo e la vittima, che subisce passivamente le molestie, senza potersi difendere e porre fine ad esse.
  • cyber-stalking: persecuzione attraverso l’invio ripetitivo di minacce, allo scopo di infastidire, molestare e terrorizzare le vittime facendo loro pensare di non essere più al sicuro neanche tra le mura di casa.
  • denigration: pubblicazione nella rete o tramite sms di fake news (notizie false), allo scopo di danneggiare la reputazione o le amicizie della vittima. Le nuove tecnologie digitali, come i social network, permettono di compiere questo atto di cyberbullismo con estrema facilità e rapidità: in poco tempo, moltissime persone potranno essere a conoscenza di queste affermazioni diffamatorie. Il processo di denigrazione colpisce generalmente aspetti centrali della personalità del soggetto come l’orientamento sessuale, l’appartenenza etnica, difetti fisici, difficoltà scolastiche e situazioni familiari.
  • masquerade: appropriazione dell’identità virtuale della vittima per compiere una serie di azioni che ne danneggiano la reputazione. Può aprire un nuovo profilo sui social network fingendo di essere la vittima oppure può agire da hacker per ottenere le credenziali d’accesso all’account della vittima compiendo azioni dannose.
  • exclusion: esclusione intenzionale di una persona da un gruppo online come WhatsApp e Facebook, chat varie, forum e anche giochi online.
  • trickery: ingannare o frodare intenzionalmente una persona

Nel 2007, è stata introdotta dall’educatore Smith una nuova forma di cyberbullismo:

Happing shapping: il cyberbullo, da solo o in gruppo, riprende la vittima con lo smartphone mentre la picchia. Il video poi viene pubblicato sul web allo scopo di deridere la vittima.

Bullismo e cyberbullismo sono fenomeni complessi che non possono essere sottovalutati, anche perché capaci di lasciare sulle vittime cicatrici indelebili.

A supporto di questo dato sconcertante, uno studio inglese ha cercato di stabilire un legame tra cyberbullismo e comportamenti a rischio suicidario, individuando, nei soggetti coinvolti nel fenomeno, vittime, bulli e bulli-vittime, la tendenza ad entrare in contatto con contenuti web riguardanti autolesionismo o suidicio.

CYBERBULLISMO E SUICIDIO: lo studio

Lo studio, condotto da Anke Gorzig (LSE’s Department of Media and Communications) ha portato all’attenzione il legame tra cyberbullismo e alcuni comportamenti disfunzionali, che potrebbero essere predittori di tendenze suicidarie.

In particolare, è stato utilizzato un campione composto da 25 mila bambini europei tra i 9 e i 16 anni. Il 6% del campione riportava di essere vittima di cyberbullismo, il 2,4% riportava di compiere atti di cyberbullismo e un 1,7% di essere sia vittima sia bullo. Di questi, il 4,1% riportava problemi nella gestione delle emozioni, il 16,8% problemi comportamentali, il 15,8% aveva problemi a relazionarsi con i propri pari.

Per quanto riguarda i comportamenti, è stata presa in considerazione la visione di contenuti web riguardanti autolesionismo o suicidi.

Nell’intero campione il 6,8% dei soggetti riportava la visione di contenuti web di autolesionismo, il 4,3% visionava contenuti web riguardanti il suicidio. Questi soggetti costituivano una bassa percentuale di coloro i quali non erano coinvolti in fenomeni di cyberbullismo. Invece, circa 1/5 dei delle vittime e dei bulli e 1/3 dei soggetti sia bulli sia vittime, era in contatto con contenuti web di autolesionismo; inoltre tra le vittime di cyberbullismo e tra coloro che ricoprivano il ruolo sia di vittime sia di bulli, era alta la percentuale di bambini che entravano a contatto con contenuti web riguardanti suicidi, mentre questa percentuale rimaneva bassa per i soggetti identificati solo come bulli.

Il trend relativo a chi entrava a contatto con contenuti di autolesionismo era due volte più alto per il gruppo delle vittime e per il gruppo dei bulli, e da tre a quattro volte più alto per i bulli-vittima, rispetto al gruppo di soggetti non coinvolti nel fenomeno; invece il trend relativo a chi entrava in contatto con contenuti di suicidio era da due a tre volte più alto per le vittime e per i bulli-vittima, rispetto al gruppo di soggetti non coinvolti.

C’è poco da aggiungere a questi dati, se non che occorre agire per prevenire un comportamento che sembra espandersi come un incendio in una giornata di forte vento, con il rischio che diventi non solo dilagante ma inarrestabile.

LE STRATEGIE IN AIUTO AI PIU’ GIOVANI

Per fortuna alcune strategie preventive si possono attuare, utili soprattutto ai più giovani:

  • Non fornire mai informazioni personali, le password, numeri PIN, ecc .
  • Non credere a tutto quello che si vede o si legge, non è detto che sia la verità.
  • Usare la gentilezza con gli altri che sono on-line, proprio come si farebbe off-line. Se qualcuno usa toni sgarbati o minacciosi è meglio non rispondere. I Bulli online sono proprio come off-line.
  • Non inviare un messaggio quando si è arrabbiati. Attendere fino a quando si ha avuto il tempo di pensare.
  • Non aprire un messaggio da qualcuno che non si conosce. In caso di dubbio è bene rivolgersi ai genitori, tutori o un altro adulto.
  • Durante la navigazione in Internet, se si trova qualcosa che non piace, che fa sentire a disagio o  spaventa, spegnere il computer e raccontare l’accaduto un adulto.
  • Concedetevi una pausa da Internet, mettendo la modalità off-line per trascorrere del tempo con la famiglia e gli amici.
  • Se si è stati vittima di un cyberbullo è importante parlare con un adulto che si conosce e di cui si ha fiducia.
  • Non cancellare o eliminare i messaggi dei cyberbulli. Non c’è bisogno di rileggerlo, ma tenerlo è la prova.
  • Non organizzare un incontro con qualcuno conosciuto online a meno che i genitori non vengano con te.

CONSIGLI PER I GENITORI

E se fosse il genitore a dover chiedere aiuto per i propri figli? Per capire se il proprio figlio o figlia è vittima di Cyberbullismo, ecco i segnali più evidenti a cui porre attenzione

  • Utilizzo eccessivo di internet.
  • Chiudere le finestre aperte del computer quando si entra nella camera.
  • Rifiuto ad utilizzare Internet.
  • Comportamenti diversi dal solito.
  • Frequenti invii attraverso Internet dei compiti svolti.
  • Lunghe chiamate telefoniche ed omissione dell’interlocutore.
  • Immagini insolite trovate nel computer.
  • Disturbi del sonno.
  • Disturbi dell’alimentazione.
  • Disturbi psicosomatici (mal di pancia, mal di testa, ecc).
  • Mancanza di interesse in occasione di eventi sociali che includono altri studenti.
  • Chiamate frequenti da scuola per essere riportati a casa.
  • Bassa autostima.
  • Inspiegabili beni personali guasti, perdita di denaro, perdita di oggetti personali.

Ascolto, consapevolezza, informazione e prevenzione sono le parole chiave su cui non si può prescindere. Al proposito, suggerisco la guida per genitori su come parlare di Internet ai figli realizzata da Unicef Italia insieme a Unicef Malesia, Digi e Telenor Group. Una lettura semplice ma efficace che non solo aiuta a sensibilizzare su un problema ancora sottovalutato, ma spinge già verso la prevenzione.

 

FOREVER YOUNG? LA SINDROME DI DORIAN GRAY

E’ storia recente, ma l’unico proiettile d’argento «contro il logorio della vita moderna», lo ha sempre e solo decantato il Cynar, l’amaro a base di carciofo tanto caro all’attore di teatro Ernesto Calindri. Troppo recente anche per Dorian Gray, il protagonista del romanzo di Oscar Wilde, che per mantenere eterna la giovinezza, per scacciare le rughe dello spirito e della pelle, è stato costretto a vendere l’anima al diavolo.

La necessità di opporre strenua resistenza all’invecchiamento e al terrore che il corpo si pieghi al passare degli anni, è nota, non a caso, come sindrome di Dorian Gray. Sintomi tipici dei tempi ultra moderni.

OSCAR WILDE

Dorian Gray per scongiurare gli effetti del tempo, fece un patto: lo specchio gli rimandava quello che era stato; il quadro, quello che stava diventando.

Giovane dalla straordinaria presenza e dai modi aristocratici, affascina il pittore Basil Hallward. L’infatuazione è tale che Hallward decide di immortalarne la bellezza in un ritratto dalla perfetta somiglianza. Dorian vedendo la sua immagine così perfetta, ne resta turbato e formula l’augurio che la vita non lasci mai alcuna impronta sul suo volto ma che, al contrario, vada a segnare quello del ritratto. Ed è ciò che succede: Dorian si dà a una vita di piaceri senza scrupoli, cominciando a disfarsi di tutti coloro che ritiene inopportuni, dalla giovane innamorata Sybil che abbandona e che per il dolore muore suicida, fino all’amico pittore che uccide di sua mano per il disappunto di sentirsi rimproverato. Ciò nonostante il suo volto continua a restare quello di un bellissimo adolescente incontaminato. Ma, di tanto in tanto, andando a sbirciare il ritratto Dorian ne scorge le terribili mutazioni e un giorno, non sopportandone più la vista, si avventa sulla propria immagine…

SINDROME & SINTOMI

La sindrome di Dorian Gray viene descritta per la prima volta dallo psichiatra Brosig, nel 2000, in un testo intitolato con questo nome, per dare risalto al gran numero di pazienti che lo contattano per la paura di invecchiare (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11471770). La nota più grave di questa sindrome è che chi è ne affetto arriva, talvolta, a compiere pericolose pratiche allo scopo di rimanere giovane: chirurgia estetica senza ritegno, eccesso di botox, e via dicendo. Il loro desiderio non è solo rimanere giovani esteticamente: vogliono continuare a vivere la vita come se avessero 18 anni e come tali continuano a comportarsi.

Brosig ha individuato alcuni tratti rappresentativi del disturbo:

– preoccupazione per l’aspetto esteriore;
– dismorfofobia, ovvero l’ossessione per un’imperfezione fisica percepita e spesso non reale (sentirsi sempre troppo grassi, per esempio, o credere di avere un naso anormale);
– eccessivo ricorso ad integratori, cosmetici, farmaci e rimedi medici o chirurgici per perfezionare il proprio aspetto o combattere l’invecchiamento;
– ricorso immotivato a stimolanti sessuali e/o droghe per contrastare la preoccupazione sulla libido e/o l’efficienza erettile;
– interesse smodato per il sesso, con promiscuità sessuale e tendenza a ricercare pratiche sempre nuove e/o estreme.

Di fatto queste persone vivono fra l’illusione e la frustrazione: fantasticano su un nuovo trattamento che restituirà loro la giovinezza ma quando si rendono conto che nulla può trasformare quella fantasia in realtà, si sentono frustrate ma lo considerano come un errore di procedimento e non della loro percezione.

TEMPI MODERNI

Questo disturbo è il frutto della necessità dei bisogni moderni: esaltare la bellezza fisica, cura maniacale dell’apparenza e sessualità come panacea universale della felicità. Ostentazione che oggi è possibile grazie ai social network, i selfie, e la presenza di alcuni programmi televisivi che inneggiano al narcisismo spietato (Uomini e donneL’isola dei famosi, con presentazione di personaggi femminili e maschili proposti come modelli standard di bellezza).

In questo contesto nascono, a testimoniare la plasmabilità della mente e dell’apparato psichico, nuove patologie di derivazione narcisistica, quali ad esempio l’ortoressia (ossessione per il mangiar “sano”) e la vigoressia (ossessione per il fisico perfetto), che si sommano agli aspetti disfunzionali classici quali disturbi dell’autostima e dell’affettività e senso di depressione legata al senso di inadeguatezza o estraneità psicosociale, che colpisce soprattutto i soggetti meno predisposti a adeguarsi ai valori dominanti.

La sindrome di Dorian Gray – che rappresenta la evoluzione negativa di un fenomeno sociale e culturale che va distinto dal disturbo narcisistico vero e proprio – presenta aspetti molto presenti nella vita sociale oggi, che diventano per chi ne soffre, motivo di disagio sociale ed individuale a volte grave.

SUPERFICIALITA’ EMOTIVA

La sindrome di Dorian Gray si evidenzia in corrispondenza dei cambiamenti legati alla maturazione corporea. Eventi come la perdita dei capelli, della tonicità della muscolatura e dei tessuti, l’aumento di peso o la riduzione della prestanza fisica possono scatenare intense crisi. Questa sindrome evidenzia gli aspetti evidenti della superficialità emotiva che oggi domina e impera sui rapporti sociali e di coppia. Piacere e piacersi per quello che si è, deve essere un coacervo inserito profondamente nelle nostre strutture emotive e poco importa se si interagisce socialmente con persone che la pensano diversamente, con persone che non sanno guardare oltre il sottile strato della pelle per cogliere l’altro nella sua completezza e veridicità. Si tratta, quindi, di una situazione complessa che ha bisogno di un intervento psicoterapeutico per essere superata.

Non posso, a questo punto, che concludere con le parole di Wilde o meglio di Dorian Gray… ove è racchiuso tutto il suo pensiero, che non è consapevolezza ma incapacità di stare al gioco della vita: «Quando la sua giovinezza se ne sarà andata, la sua bellezza la seguirà e allora improvvisamente si renderà conto che non ci saranno più trionfi per lei, oppure dovrà accontentarsi di quei mediocri trionfi che il ricordo del passato renderà amari più di sconfitte. Ogni mese che passa la avvicina a qualcosa di tremendo. Il tempo è geloso di lei e combatte contro i suoi gigli e le sue rose. Il suo colorito si spegnerà, le guance si incaveranno, gli occhi perderanno luminosità. Soffrirà, orrendamente… Ah! approfitti della giovinezza finché la possiede. Non sprechi l’oro dei suoi giorni ascoltando gente noiosa, cercando di migliorare un fallimento senza speranza o gettando la sua vita agli ignoranti, alla gente mediocre, ai malvagi. Questi sono gli obiettivi malsani, i falsi ideali della nostra società. Deve vivere! Vivere la vita meravigliosa che è in lei! Non lasci perdere nulla! Cerchi sempre sensazioni nuove. Non abbia paura di nulla…».

IL POTERE PERSUASIVO DEL NEUROMARKETING… CHE TUTTI POSSIAMO APPLICARE

Ha poco meno di una ventina d’anni, eppure sempre più persone, in tutto il mondo, se ne avvalgono. Di cosa parliamo? Del Neuromarketing, la disciplina che fonde marketing tradizionale, neurologia, fisiologia, psicologia e scienze comportamentali (termine coniato dal ricercatore olandese Ale Smidts, nel 2002). Il fine? Indagare sempre più a fondo ciò che accade nel cervello delle persone in risposta ad alcuni stimoli sensoriali cognitivi e ambientali, decodificando i processi cerebrali alla base delle decisioni umane, in particolare quelle di acquisto.

In parole più semplici il Neuromarketing svela le tecniche di vendita e i fenomeni psicologici sottili che ci fanno prendere una decisione d’acquisto piuttosto che un’altra, traendo vantaggio dalla nostra inconsapevolezza. Questa scoperta ha rivoluzionato di fatto il modo di vedere l’essere umano ed è stato il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio a riassumere il tutto in una famosa frase: We are not thinking machines that feel, we are feeling machines that think.

Questa rivoluzione ha avuto un enorme impatto anche nel mondo della comunicazione e del marketing. Oggi, grazie a metodologie sempre più precise e meno invasive, è possibile per esempio, ricavare informazioni e misurare l’attenzione, il coinvolgimento emotivo, il carico cognitivo e seguire il percorso visivo e le fissazioni dello sguardo. Dati che sono di enorme aiuto a chi si occupa di marketing per capire sempre meglio la fruizione delle persone di elementi di comunicazione, di elementi costitutivi del prodotto (logo, packaging, sapore, profumo, forma e colori), fino a giungere ai comportamenti nei punti vendita, di fronte allo scaffale.

E’ persino possibile misurare l’efficacia di un prodotto e indagare quanto i valori di una marca siano effettivamente condivisi e quindi efficacemente comunicati dall’addetto alle vendite. In aiuto arriva, in questo caso, l’implicit association test (Iat), capace di misurare le associazioni mentali suscitate da una marca, non solo quelle di cui siamo razionalmente consci, ma anche quelle non consce.

TECNICHE DI APPLICAZIONE DEL NEUROMARKETING

Ecco alcune tecniche di Neuromarketing che tutti possono applicare nel quotidiano.

  1. Dammi una ragione

Un noto studio è quello della “fotocopiatrice Xerox,” di Ellen Langer, psicologa di Harvard dove una studentessa doveva cercare, con una scusa, di saltare la coda per utilizzare la fotocopiatrice.

Nel primo scenario la ragazza chiedeva a coloro che erano in coda: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice?” Nel 60% dei casi le persone le permettevano di saltare la coda. Nel secondo scenario chiedeva: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice? Perchè sono di fretta”. Il permesso a saltare la coda è salito al 94% dei casi, solo aggiungendo una scusa. Il terzo scenario è il più sorprendente: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice? Perchè devo fare alcune copie”. La percentuale è stata del 93% anche se ciò che era stato fatto era aggiungere una spiegazione ridicola e ridondante.

Il nostro cervello ama le risposte, così come ama le parole crociate e i rompicapo. Una risposta fornisce la soddisfazione neurologica ed intellettuale alla nostra “fame” per una soluzione. Il discorso più coinvolgente non solo trasmette informazioni, ma fornisce anche soluzioni. I prodotti più efficaci non sono semplicemente indirizzati a problemi, li risolvono.

  1. Il mondo nelle tue mani

Allan Pease ha tenuto un interessante Ted Talk su come l’espressione gestuale delle mani possa modificare la percezione del pubblico.

Pease descrive un esperimento in cui uno speaker ripete lo stesso copione ad una platea, modificando solo la posizione e la gestualità delle mani: mostrando i palmi, nascondendoli o utilizzando le dita per indicare. Il discorso tenuto con i palmi in vista è stato ricordato dal 40% in più di pubblico e lo speaker è stato descritto come piacevole ed amichevole. I palmi nascosti sono stati descritti come autoritari, mentre l’utilizzo delle dita per indicare ha suscitato la risposta più negativa e la minore percentuale di ritenzione del discorso.

Pease spiega che il mostrare i palmi delle nostre mani è storicamente un segno di pace, che comunica il fatto che non abbiamo nulla da nascondere. Nascondere i palmi delle mani riflette inconsciamente un senso di protezione, dominio o potere. Un chiaro esempio è il saluto ad Hitler…immaginate se fosse stato fatto con il palmo della mano rivolto verso l’alto, avrebbe avuto lo stesso potere di persuasione?

  1. Il paradosso della scelta

Dal tipo di condimento al computer, dal modello di cellulare alla macchina, siamo continuamente inondati di opzioni fra le quali scegliere. Molte persone sono felici di avere ampi ventagli di scelte, ma se il vostro obiettivo è effettuare una vendita allora è meglio puntare sull’offrire un numero di scelte limitato.

Una ricerca ha mostrato infatti che solo il 3% dei clienti ai quali è stata presentata un’offerta di 24 differenti tipi di marmellata ha effettuato un acquisto, contro il 30% a cui erano state offerte solo 6 varietà. Un eccesso di opzioni produce una paralisi nel processo di scelta. Il processo mentale richiesto per valutare e prendere una decisione va in sovraccarico.

  1. Colore, profumo e suono

In molti supermercati il fiorista e la panetteria sono situati all’ingresso ed in vicinanza delle casse, questo insieme ad intere pareti di caramelle e patatine impilate in maniera impeccabile. Gli odori e i colori piacevoli portano ad un sovraccarico sensoriale che attiva un rilascio di endorfine ed uno stato di maggior piacere, risultante in un aumento degli acquisti.

I guardiani di un parco utilizzeranno dei colori chiari per scoraggiare il vagabondaggio. Le cameriere che indossano abiti rossi ricevono più mance. Gli ospedali utilizzano il bianco per ottenere un effetto calmante. I ristoranti utilizzano il giallo per migliorare l’umore dei clienti e stimolare la fame. Una musica con un ritmo più lento porta i clienti a muoversi più lentamente e ad acquistare di più. La musica classica è stata collegata con un incremento delle vendite nei ristoranti e nelle rivendite di vino. Una musica piacevole mentre state attendendo in linea durante una telefonata porta ad ottenere chiamate più lunghe.

  1. Il principio di scarsità

Pubblicizzate il vostro prodotto con il claim: “per un periodo di tempo limitato,” ed improvvisamente otterrete un picco nelle vendite. Le compagnie aeree utilizzano spesso frasi come “solo 3 posti rimasti” per portarvi ad effettuare l’acquisto. Quando le opzioni sono scarse ciò che è disponibile diventa molto più attraente.

Quando abbiamo bisogno di qualcosa siamo inclini a cadere in un “mondo rimpicciolito” e a prendere decisioni irrazionali.

  1. Tu. Sì, tu

I copywriters scelgono spesso intenzionalmente di utilizzare il tu. Per quanto l’obiettivo possa essere quello di raggiungere milioni di persone, il metodo è quello di dare l’impressione che si stia facendo riferimento alla singola persona.

Spostarsi dal riferimento generale a quello personale rompe letteralmente il fondamentale errore di attribuzione. Secondo il nostro orientamento cognitivo abbiamo due differenti lenti con le quali giudichiamo la realtà: una con la quale giudichiamo le altre persone, e un’altra per giudicare noi stessi. Potreste diventare furiosi se vedeste qualcuno che cerca di guidare e scrivere un messaggio al cellulare nello stesso tempo, ma trovereste miriadi di motivazioni per giustificare i vostri propri comportamenti.

Un messaggio rivolto ad un pubblico generale viene interpretato e letto utilizzando la lente del giudizio critico che siamo soliti applicare agli altri, mentre un messaggio personale viene istintivamente letto con la lente simpatetica che riserviamo a noi stessi. Far sentire qualcuno come se fosse la sola persona nella stanza non è solamente una dimostrazione di una buona intelligenza sociale, ma anche una via di comunicazione veramente efficace.

  1. L’effetto contrasto

Un’azienda ha costruito ed immesso sul mercato una macchina per fare il pane ad un costo di 275$ riuscendo a fatica a venderne un numero esiguo di pezzi. In seguito le vendite della macchina per il pane sono state raddoppiate. Questo risultato è stato ottenuto non riducendo il prezzo della prima macchina per il pane, ma affiancandola ad un’altra del tutto simile ma con un prezzo pari a 429$. Questo ha reso improvvisamente la prima macchina da 275$ un vero affare.

Un venditore intelligente vende il prodotto a prezzo maggiore fuori dalla massa degli altri prodotti. Una cravatta da 129€ non sembra poi tanto cara dopo aver speso più di mille euro per l’abito. Un primo prezzo che punti al cielo diventa un’ancora per la comparazione, e fa sembrare che qualsiasi altra cosa abbia un prezzo ragionevole.

Questo meccanismo funziona ben al di là del business. Il nostro cervello processa le informazioni relazionandole fra loro, ma questi confronti posso facilmente essere deformati e diventare svantaggiosi. A volte risulta più utile ed efficiente pensare in maniera isolata alle singole informazioni che dobbiamo processare.

Ora tocca a voi… Come avete visto applicare semplici regole di Neuromarketing è molto più semplice di quanto sembri!

CONTRO LO STRESS DELL’ORA DI PUNTA, ARRIVA LO PSICOLOGO DEL TRAFFICO

Non lo trovi ai semafori a dispensare consigli, o a un incrocio a sostenere il vigile urbano mentre cerca di dirigere la circolazione, anche se si occupa del comportamento alla guida e di tutti i processi psicologici coinvolti. Di chi si tratta? Dello psicologo del traffico, il professionista che si occupa di tutelare la salute pubblica nell’ambito della circolazione stradale, al fine di ridurre gli incidenti stradali e aumentare la sicurezza.

La psicologia del traffico è una branca della psicologia che studia il comportamento degli utenti della strada, i processi psicologici sottostanti a questo processo e la relazione tra comportamento ed incidenti stradali. Ed è particolarmente sviluppato nell’Europa centrale, dove raggiunge standard molto elevati, in particolare in Germania e in Austria, ma è ben radicato anche in altri paesi come Spagna, Francia e Australia. I temi tipici affrontati dalla psicologia del traffico riguardano, ad esempio, gli effetti di diversi fattori come alcol, droghe o farmaci, affaticamento e stanchezza, sulle capacità di guidare in sicurezza; le cause dell’alto rischio di incidenti stradali dei conducenti giovani neopatentati; il ruolo dei processi cognitivi quali l’attenzione, il sovraccarico cognitivo, ecc.; le cause della guida a velocità inadeguata o l’assunzione di comportamenti a rischio; i fattori di personalità che possono concausare incidenti stradali.

ROSSO, GIALLO E VERDE

Un esempio pratico. I colori del semaforo, rosso, gialle e verde, non sono la scelta ottimale. Non sono riconoscibili dalle persone daltoniche e in certe condizioni di luce anche chi non litiga con i colori fa fatica a metterli a fuoco.

Lo psicologo del traffico Karl Peglau, dell’Istituto di Medicina del Traffico di Berlino dove studiava come rendere più sicure le strade analizzando la psicologia del guidatore e del pedone per ridurre la possibilità degli incidenti, associò ai colori, una forma geometrica che suggeriva in maniera inequivocabile di fermarsi o procedere. I due omini, AMPELMANN, uno rosso a piedi uniti e a braccia aperte che impone di fermarsi e uno verde atletico che si precipita in strada per attraversarla, danno direttive più chiare.

Questo suggerimento di Peglau, noto a tutti, aiuta in modo inequivocabile a capire se fermarsi o sgombrare la strada ai semafori.

ATTENZIONE E SICUREZZA

Cosa dire dell’ABS e degli airbag? Sono sufficienti da soli a rendere la guida sicura? Sicuramente, ma lo psicologo del traffico Max Dorfer, precisa che a determinare la sicurezza della guida interviene un oggetto, che pesa circa un chilo e mezzo ed è collocato tra le due orecchie e non si tratta di un optional. Il cervello! Determina la condotta di guida, la scelta del veicolo, il suo uso, la scelta della RCA e, in definitiva, anche la propensione agli incidenti.

“In Italia comincia a farsi strada, nel vero senso della parola, la convinzione che al tema della sicurezza, un corretto approccio non può che essere multidisciplinare (conoscenza dei processi percettivi, attentivi, emotivi, mnestici, di psicologia sociale e del lavoro, di psicologia dello sviluppo e dell’educazione, di psicologia clinica, ergonomia). Inoltre, è necessario adottare solo misure di cui è documentata l’efficacia, basate su solide evidenze scientifiche. Non siamo ancora ai livelli dei paesi più avanzati come la Danimarca, la Germania o la Francia, ma ci stiamo avvicinando”.

GLI EFFETTI DEL TRAFFICO SULLA PSICHE

Le città, con la loro abnorme concentrazione di stimoli percettivi (uditivi, visivi e cinestesici) sono un ambiente altamente complesso e caotico, in grado di suscitare una gamma infinita e mutevole di stati d’animo. Tale aspetto è legato soprattutto alla influenza degli effetti della vita cittadina sui normali ritmi biologici e circadiani, che risultano sempre più privi di pause fra un’attività e l’altra. Si calcola che la tendenza delle persone è suddividere mentalmente la giornata in unità di tempo di circa 30 minuti-un’ora da dedicare ad ogni impegno per riuscire a farvi rientrare tutto ciò che si ritiene importante, con conseguente esposizione ad inevitabile stress dato dalla impossibilità che questa situazione ideale si realizzi.

Queste unità di tempo si fanno però relative e acquistano un valore diverso a seconda del contesto in cui ci troviamo; girando per il centro storico di una città nell’ora di punta uno spazio vuoto di 3 metri lungo il marciapiede può sembrare uno spazio infinito e qualcosa per cui si diventa disposti a lottare con il coltello fra i denti; lo stesso vale per una frazione temporale di 5 minuti che, se trascorsi in attesa, equivalgono ad un lasso di tempo enorme perchè sinonimo di imperdonabile “spreco”.

Città significa soprattutto traffico, ovvero un micro ambiente a parte, in cui la pressione psicologica e l’iperstimolazione ambientale si fanno ancora più concentrati, schiacciando progressivamente il nucleo individuale in uno spazio sempre più ridotto (l’automobile) che diviene per ognuno una sorta di ambiente privato inviolabile e gelosamente custodito.

Ecco gli aspetti psicologici del traffico si fanno rilevanti.

Effetto privacy: in macchina si trasporta di tutto, ci si mette le dita nel naso pensando di non essere visti, oppure si allestisce all’occorrenza una sorta di ufficio o monolocale mobile. Insomma, l’automobile è sempre più uno spazio in cui si finisce per trascorrere molto tempo, un luogo sempre più a immagine e somiglianza del proprietario e che ne riflette la personalità.

Alterazione del normale rapporto uomo-ambiente: si stima che il nostro organismo sia fatto per muoversi nel proprio ambiente ad una velocità ideale inferiore agli 8 km/h; questa velocità infatti rende possibile un rapporto uomo-ambiente armonico, in cui le funzioni di osservazione, orientamento, attenzione trovano il miglior livello di funzionamento con conseguenti effetti benefici sui vissuti emotivi. Basti pensare al benessere offerto dai ritmi di vita della campagna, che vengono ricercati sempre più spesso da chi vive in città e risulta ormai assuefatto ad un’alterazione cronica dei normali ritmi biologici.

Scorciatoie percettive: la velocità degli spostamenti cittadini e il sovraccarico di stimoli presente nell’ambiente urbano inducono nelle persone il bisogno di “economizzare” sui tempi di attenzione; di conseguenza mentre viaggiamo in auto tendiamo a dare rapide occhiate nel nostro campo visivo su cui basare la nostra valutazione e le nostre scelte immediate. Queste “scorciatoie” percettive basate sulla fretta non di rado possono indurci in errore esponendoci anche a rischi.

Sottostima del rischio e delle conseguenze del proprio comportamento: confortati anche dalla percezione di maggiore libertà e anonimato offerti dall’abitacolo si può essere portati, in mezzo ad una folla di altri automobilisti, a compiere scorrettezze, a inveire contro altre persone sfogando le proprie frustrazioni o addirittura a porre in essere condotte lesive o delinquenziali senza percepire il danno reale causato alla vittima. Il mezzo infatti altera sensibilmente il rapporto comportamento-effetto. E’ il caso tipico della pirateria stradale, dove le caratteristiche dell’automobile fanno prevalere gli istinti negativi (vigliaccheria, egoismo) su quelli positivi e prosociali (solidarietà, onestà).

Regressione: in auto, e soprattutto in condizioni di pressione psicologica causata dal traffico intenso, le persone tendono ad avere una caduta dei normali livelli di performance cognitiva, divenendo prigionieri di processi emotivi di tipo ansioso che abbassano drasticamente la resistenza alla frustrazione. Di conseguenza in queste circostanze è una tendenza frequente esprimere i peggiori istinti e le emozioni più primitive (aggressività, prevaricazione, mancanza di rispetto) sia come modalità di linguaggio analogico (“io ho la macchina più grande e quindi comando io”) sia come effetto di dinamiche collettive che trasformano il singolo rispetto alla sua dimensione individuale.

In altre parole, quando ci mettiamo alla guida ci trasformiamo e spesso sottovalutiamo i rischi così protetti dalla nostra automobile. Ecco perché studiare i comportamenti legati al traffico può fare la differenza e come dice lo psicologo del traffico americano Dwight Hennessy: “Non siamo poi così diversi. Non importa il paese o la cultura di appartenenza. Le strade potrebbero essere diverse, le macchine potrebbero essere differenti. Le leggi potrebbero essere univoche ma alla guida tutti noi operiamo in virtù degli stessi processi psicologici.”

Conoscere questi processi, ci aiuta a contenerli e in alcuni casi persino a prevenirli. Non a caso, ti chiedo, fra gli effetti elencati sopra, in quanti ti riconosci, quali metti normalmente in atto anche senza accorgerti? E conosci a quali rischi ti esponi, attuandoli?

CHIUDI GLI OCCHI SE NON VUOI DIMENTICARE… SEMPLICI TRUCCHI PER ALLENARE LA MEMORIA

Non ricordi più il pin del bancomat, non sai dove hai lasciato le chiavi, e il nome di quel ristorante di cui ti hanno tanto parlato e, stasera sarebbe proprio la sera giusta per andarci, non vuole proprio tornarti in mente…? Tranquillo, una soluzione c’è: chiudi gli occhi.

Non è uno scherzo. Ma il frutto di anni di ricerche nel campo delle neuroscienze: la concentrazione e il richiamare alla mente determinati particolari avvengano con più facilità ad occhi chiusi. In questo modo  vengono esclusi quei fattori di disturbo esterni che potrebbero compromettere la concentrazione e la focalizzazione su quanto è di nostro interesse ricordare.

Lo studio che ha portato a questa conclusione è stato condotto da un gruppo di psicologi dell’università britannica del Surrey che ha messo alla prova 178 persone, facendo vedere loro due diversi film.  Il primo muto, composto da sole immagini in movimento, il secondo con il sonoro attivato. Nel primo film si vedeva un ladro travestito da idraulico entrare in azione in un appartamento derubando la padrona. A fine proiezione gli spettatori sono stati invitati a chiudere gli occhi e a concentrarsi ricordando le immagini per rispondeew a una serie di quesiti su alcuni particolari del film, come per esempio cosa vi era scritto sul camioncino del ladro.

Nel secondo film invece, veniva proiettato un episodio tratto da una serie tv trasmessa dalla Bbc dove veniva raccontato un crimine ai danni di una signora anziana, questa volta con dialoghi e audio attivato. Al campione sottoposto al test veniva chiesto ancora una volta di rispondere a occhi chiusi a una serie di quesiti, incluse domande sulle frasi pronunciate dai protagonisti dell’episodio.

CHIUDERE GLI OCCHI FA MIRACOLI

I risultati raccolti dai ricercatori hanno dimostrato come la concentrazione e il richiamare determinati particolari siano azioni più semplici se gli occhi vengono chiusi, escludendo dunque fattori di disturbo esterni che potrebbero compromettere la concentrazione e il focalizzarsi su quanto richiesto.

Alle stesse domande poste a un campione di persone a occhi aperti è stato risposto correttamente nel 48 per cento dei casi, mentre quando le persone intervistate venivano invitate a isolare la vista e gli elementi esterni chiudendo gli occhi, questa percentuale saliva al 71 per cento.

Lo studio dimostrerebbe anche l’efficacia degli esercizi di visualizzazione per alzare la capacità di registrare informazioni visive e aiutare così il cervello a ritenere un maggior numero di particolari rispetto a un fatto, a un’immagine, ma anche a qualcosa che viene sentito nell’ambiente che ci circonda.

La ricerca, utile nella vita comune ma pensata soprattutto per migliorare le tecniche di intervista dei testimoni oculari di crimini, è stata pubblicata sulla rivista scientifica Legal and Criminology Psychology. I ricercatori hanno inoltre dimostrato come, oltre agli occhi chiusi, anche il legame creato con l’investigatore prima dell’intervista sia un fattore che può aiutare maggiormente a ricordare. La percentuale di risposte esatte infatti aumentava anche nel caso in cui si fosse instaurato un rapporto di conoscenza e di fiducia tra intervistato e intervistatore.

ALTRE RICERCHE 

Lo scienziato Art Markman, ha dimostrato che il nostro cervello elabora tonnellate di informazioni; decifrare tutto ciò che si vede richiede molta potenza di elaborazione da parte della mente, chiudere gli occhi, fissare il cielo o il soffitto, aiuta il cervello a “rilassarsi”, concentrandosi su cosa ricordare piuttosto che elaborare gli input visivi;
lo stesso concetto vale per gli altri sensi. Se si sta cercando di ricordare un suono o la voce di qualcuno, i rumori percepiti dal nostro orecchio rendono il processo più difficile. Questo è il motivo per cui, ad esempio, si può avere difficoltà a scrivere quando gli altri stanno parlando. In sostanza, quando si ha bisogno di ricordare qualcosa, è necessario isolare il senso rilevante.

Un’altra ricerca svolta da psicologi e neuroscienziati dell’Università di Edimburgo, dimostra che far riposare la mente aiuta a fissare meglio le informazioni percepite. In un test gli scienziati hanno chiesto a un gruppo di persone di seguire un racconto, quindi rilassarsi, prendere una breve pausa e chiudere gli occhi per 10 minuti in una stanza buia. Agli stessi partecipanti è stata poi proposta un’altra storia ma invece di incentivare il riposo è stato chiesto loro di svolgere un altro compito impegnativo per la mente: individuare le differenze tra alcune coppie di immagini quasi identiche.
I ricercatori hanno così appurato che i partecipanti allo studio ricordano molti più dettagli di qualsiasi storia loro raccontata se questi, dopo aver udito il racconto, si sono rilassati non impegnando il loro cervello in altre attività, sorprendentemente scoprendo che i loro ricordi sono ancora vividi anche dopo una settimana.

Una scoperta che dovrebbero tenere in forte considerazione gli studenti o tutte quelle persone a cui è richiedo l’apprendimento di nuove nozioni.

SE NON BASTASSE… ALTRI 4 TRUCCHI PER RICORDARE

Per fermare, o al limite arginare, l’oblio ci sono altri trucchi supportati dalle ricerche scientifiche che possono rivelarsi utili.

STAI BEN SEDUTO

La postura conta più di quanto si pensi. Si pensava che avesse benefici solo per la colonna vertebrale, poi si è scoperto che può avere conseguenze sull’attenzione e sulla memoria. Dritti e con il mento in su, insomma. La posizione aumenta il flusso di ossigeno al cervello almeno del 40%. Rimanere curvi in avanti aiuta, invece, a ravvivare i brutti ricordi.

EVITA LE PORTE

È un fenomeno che abbiamo sperimentato tutti: si lascia una stanza per fare una cosa, e quando si approda nell’altra, non ci si ricorda più cosa siamo andati a fare lì. Il funzionamento dell’effetto della porta” è questo: di fronte a nuove sensazioni (visive, uditive) impreviste e improvvise, gli ultimi pensieri vengono messi da parte per fare spazio alla nuova, imprevista, situazione.

MASTICA GOMME
La scienza ha scoperto che masticare aiuta a concentrarsi e, di conseguenza, a sviluppare ricordi più saldi. L’ultima parola spetta a uno studio dell’Università di Cardiff, che dimostra come la ripetitività dell’azione, il flusso di sangue siano fattori importanti per tenere desta l’attenzione per un periodo di tempo piuttosto lungo.

PRENDERE APPUNTI A MANO
Il movimento della mano, la pressione, la traduzione dei suoni in segni implicano un’attività mentale più ampia e raffinata rispetto a quella che richiede la semplice tastiera. Anche qui, l’attenzione sarà maggiore e così anche la durata dei ricordi.

A questo punto non avete più scuse… neanch’io…

Se poi fossi riuscito a solleticare la tua curiosità, e nel caso lo avessi perso, ti rimando anche a un articolo di qualche tempo fa in cui invece ti raccontavo come il cervello elabora la memoria: http://diegococo.it/?p=2135&preview=true

UN INSETTO SOTTO PELLE… LA SENSAZIONE CHE PROVA CHI E’ AFFETTO DALLA SINDROME DI EKBOM

Insetti e parassiti sotto pelle. E’ la sensazione che avvertono le persone affette dalla sindrome di Ekbom, il disturbo psicologico che porta ad avere allucinazioni tattili e prurito costante in una o più parti del corpo.

Chi ne soffre, sostiene con forte convinzione di avere vermi, ragni, insetti di natura indefinita sotto pelle, nonostante esami e medici dicano tutto il contrario. E per rimuoverli, si provoca lesioni con qualsiasi oggetto tagliente o appuntito trova disponibile, come lamette, coltelli, forbici e punteruoli. Le ferite auto inferte, i lembi di pelle rimossi, capelli e fibre che restano sotto pelle a causa del continuo sfregamento (spesso scambiati per le “antenne” e le zampette dei parassiti), vengono esibiti ai medici come prova dell’infestazione in atto. Chi ne soffre si lava di continuo, applica prodotti sul corpo e fa eseguire ripetute disinfestazioni a casa, che naturalmente non portano ad alcun miglioramento della patologia. Per questa ragione c’è chi addirittura è spinto a bruciare i vestiti e ad abbandonare la propria abitazione. I pazienti sono talmente convinti dell’infestazione che non intendono affidarsi a degli specialisti.

IL PRIMO CASO

Il primo caso noto in letteratura medica di sindrome di Ekbom o parassitosi delirante fu descritto a metà del XIX secolo dal dottor Charcellay De Thours, che visitò una paziente convinta di essere infestata da ragni dopo aver bevuto acqua contaminata da una fonte. Benché nei decenni successivi furono date diverse descrizioni alla patologia, chiamata con vari appellativi come Allucinazioni Cutanee Visive, Ipocondria Monosintomatica e Ossessione Allucinatoria Zoopatica, soltanto nel 1938 il neurologo Karl Axel Ekbom la descrisse accuratamente in tutte le sue caratteristiche. Per questa ragione la parassitosi delirante è nota anche con il nome di Sindrome di Ekbom.

CHI COLPISCE?

La parassitosi delirante o sindrome di Ekbom, interessa prevalentemente persone in tarda età o comunque nella fase antecedente alla senescenza, e nella maggior parte dei casi si tratta di donne. La patologia, come si legge in un articolo pubblicato nel Journal of Pshycopathology, si manifesta in maniera improvvisa, violenta, a seguito di un evento specifico come il contatto con un animale, con i vestiti di un’altra persona o l’assunzione di una sostanza infetta. Dopo di ciò compaiono le prime allucinazioni visive e sensoriali, che spingono a infliggersi lesioni per rimuovere il problema. Curiosamente la condizione può essere indotta nelle persone mentalmente predisposte; è noto il caso di due sorelle anziane che avevano sviluppato il medesimo disturbo abitando nella stessa casa, e quello di un’altra anziana che aveva “contagiato” con la parassitosi delirante altri membri della sua famiglia.

L’incidenza della malattia è maggiore in Europa e in Nord America, in una percentuale che oscilla tra il 5% e il 15%.

COME RICONOSCERLA

La maggior parte delle persone che hanno la sindrome di Ekbom riportano sensazioni che attribuiscono a movimenti di insetti che passano attraverso la pelle o che si muovono all’interno. Questa percezione anormale è chiamata “formicazione” e fa parte dei fenomeni noti come parestesie, che comprendono anche forature o intorpidimento. Sebbene le formiche siano uno dei “parassiti” più frequentemente indicati e danno nomi a termini diversi che sono usati per riferirsi alla sindrome di Ekbom, è anche comune per le persone con questo disturbo dire che hanno vermi, ragni, lucertole e altri piccoli animali. A volte affermano che questi sono invisibili.

Spesso l’aspetto della sindrome di Ekbom è associato a una iper attivazione dell’organismo dovuta al consumo di alcune sostanze. In particolare, la parassitosi delirante in molti casi è dovuta a Sindrome da astinenza nelle persone con dipendenza da alcol o al consumo eccessivo di cocaina o altri stimolanti.

Oltre ai disturbi psicotici, altre alterazioni nella struttura e nel funzionamento del cervello possono spiegare l’emergere di questo disturbo. Le malattie neurodegenerative (tra cui la demenza alcolica) e le lesioni traumatiche al cervello, ad esempio, sono due cause comuni della sindrome di Ekbom.

TRATTAMENTO

Il trattamento più efficace è quello farmacologico e psichiatrico. Insomma benchè sia molto rara è una sindrome che va tratta da specialisti e non ci si può affidare al caso. Come molte delle sindromi che ho descritto in questo blog.

Forse qualcuno si sta chiedendo perchè mi scervello a studiare tutte queste sindromi bizzarre non solo nel nome, ma anche nella sintomatologia. Curiosità, sete di conoscenza sono le risposte che più mi appartengono. Spesso siamo portati a giudicare le stranezze degli altri senza conoscere veramente cosa ci sia alla base. Bene, più conosciamo il cervello, più allarghiamo la rete delle nozioni e più diventiamo consapevoli che ognuno, a modo suo, è lì a combattere la sua battaglia quotidiana con mostri che anche se non vediamo, sono tutt’altro che innocui.

IL LATO OSCURO DELLA MELATONINA… (SE LA USI LO DEVI CONOSCERE)

Una ci fa dormire, l’altra ci dà la spinta ad alzarci dal letto. Una va in giro di giorno, l’altra di notte. E sono entrambe indispensabili per il nostro benessere. Di cosa  sto parlando? Di due sostanze di cui si fa un gran parlare e che tutti conoscono ma intorno alle quali regna una certa confusione: la serotonina e la melatonina.

Responsabile della produzione di queste due sostanze è la ghiandola pineale, o epifisi, sita nel nostro cervello: quando c’è luce produce serotonina e nel momento in cui la luminosità diminuisce comincia a produrre melatonina.

Per Cartesio la ghiandola pineale era il luogo privilegiato dove mente (res cogitans) e corpo (res extensa) interagiscono. Dopo decenni di profonda ignoranza in merito, le neuroscienze hanno smesso di trattare l’epifisi alla stregua di un’inutile appendice del cervello: il segreto di questa incredibile ghiandola endocrina, che riceve il più abbondante flusso sanguigno di qualsiasi altra ghiandola nel corpo, è celato nel fatto che è responsabile del ciclo di veglia/sonno, del nostro invecchiamento, di stati a più alta coerenza neurale (maggior chiarezza mentale), del ritmo di secrezione del cortisolo e della variazione della temperatura corporea, solo per fare qualche esempio.

La serotonina è il neurotrasmettitore che dice “alzati e vai”. Sveglia chi dorme e lo spinge a mettersi in moto. Quando invece si fa buio, la ghiandola pineale interrompe la produzione di serotonina per produrre melatonina, utile per farci dormire. E di cui spesso facciamo un uso scriteriato per riprenderci dal jet lag o gestire i disturbi del sonno.

MELATONINA E MEMORIA

La melatonina oltre a regolare i ritmi circadiani è coinvolta anche nello sviluppo della memoria. A dirlo i ricercatori dell’Università di Houston, in Texas, in una ricerca pubblicata sulla rivista Science, secondo cui la melatonina inibirebbe la formazione della memoria almeno in una particolare specie ittica: il pesce Danio zebrato.

La qualità della memoria del Danio zebrato è stata valutata nel corso della sperimentazione in base alla capacità di ricordare un semplice esercizio. In molti esperimenti, si è riscontrato come la formazione della memoria sia durante il giorno più solida che di notte, quando la melatonina viene secreta naturalmente.

I risultati di quest’ultimo studio mostrano che la melatonina somministrata durante il giorno sopprime la formazione della memoria. Quando i pesci erano esposti a luce costante, la formazione della memoria era più forte di notte e la melatonina era ridotta. Infine, quando al pesce erano somministrati farmaci che bloccano la loro capacità di secernere la melatonina di notte, la formazione della memoria veniva di nuovo migliorata.

PERCHE’ L’EVOLUZIONE FAVORISCE IL SONNO, STATO IN CUI TUTTI SONO POTENZIALMENTE PIU’ VULNERABILI?

A dare una risposta al quesito, la scoperta, pubblicata su Science,  di Maiken Nedergaard del Centro di Neuromedicina dell’Università di Rochester (New York, USA).

Studi precedenti avevano evidenziato come il sonno fosse utile a riorganizzare e consolidare i ricordi accumulati durante la  veglia. Ma perché il cervello è costretto a consumare così tanta energia anche nelle ore notturne? Lo studio condotto sui topi (che hanno un sistema nervoso simile al nostro), ha evidenziato come, durante il sonno, il sistema linfatico – il netturbino del cervello inietti liquor (un liquido presente nel sistema nervoso centrale) nei tessuti cerebrali, lavandoli dalle proteine tossiche accumulate durante il giorno. Questi scarti vengono reimmessi nel sistema circolatorio e inviati, come il resto delle tossine del nostro corpo, al fegato per essere smaltiti.

Il sistema di pulizie scoperto da Nedergaard è specifico del cervello, che è un ecosistema chiuso e rimane fuori dall’altro circuito ripulente del corpo umano, ossia il sistema linfatico.

Liberare il cervello dalle tossine richiede molta energia: ecco perché, ipotizzano i ricercatori, il dispendio energetico notturno del cervello non è molto inferiore a quello diurno. Ciò spiegherebbe anche perché questo processo avviene di notte, quando non stiamo processando attivamente informazioni: «Non puoi intrattenere gli ospiti e pulire casa contemporaneamente» spiega Nedergaard.

La ricerca fa emergere anche un’altra, sorprendente dinamica: durante il sonno, le cellule cerebrali si restringerebbero del 60% per permettere al liquor di penetrare in modo più capillare nel tessuto cerebrale e ripulirlo al meglio. A guidare l’operazione potrebbe essere la noradrenalina, un ormone che entra in gioco, generalmente, quando il cervello ha bisogno di essere estremamente vigile e che regolerebbe, in questo caso, la contrazione e l’espansione delle sue cellule.

MELATONINA: E’ DAVVERO SICURA?

Essendo una sostanza naturale perché secreta dal nostro corpo, spesso si pensa sia innocua da somministrare anche ai bambini per aiutarli a far pace con Morfeo: integratore, ma anche farmaco se il dosaggio supera i 2 mg, utilizzato sempre più spesso per risolvere i problemi d’insonnia, che colpiscono poco meno di 10 milioni di italiani e che sono in aumento anche nell’età pediatrica: il 35-40% dei bambini, infatti, soffre di problemi di sonno durante la crescita.

Noti sono infatti gli effetti collaterali. Anche se il suo uso a breve termine negli adulti è generalmente considerato sicuro, si può andare incontro a mal di testa, vertigini e sonnolenza durante il giorno. La melatonina potrebbe anche interferire con la pressione sanguigna, il diabete e aumentare il rischio di coagulazione del sangue, quindi non dovrebbe essere utilizzata da persone che già assumono altri farmaci che influenzano questa funzione, o da persone con questo tipo di disturbi.

QUANDO E’ INDICATA?

Vari studi hanno dimostrato l’efficacia della melatonina negli adulti per combattere i disturbi provocati dal jet-lag e dall’insonnia e riequilibrare il ritmo sonno-veglia. E’ adatta nella sindrome da fase di sonno ritardata, cioè in quelle persone che la sera non andrebbero mai a dormire, mentre al mattino fanno fatica ad alzarsi; nei casi di jet-lag, perché migliora sia il sonno sia i sintomi che compaiono di giorno, cioè malessere generale e disturbi gastrointestinali. E’ utile anche negli anziani perché spesso la sua secrezione si riduce con il progredire dell’età. Un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Current opinion in pulmonary medicine ha dimostrato che alcuni trattamenti per l’insonnia, tra cui la melatonina, possono migliorare considerevolmente la qualità di vita oltre che il sonno dei pazienti affetti da Broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco).

NON SONO TUTTE UGUALI

La melatonina si trova in alcuni alimenti come orzo, olive e noci, ma viene prescritta come integratore reperibile in farmacia o in erboristeria sotto forma di compresse, sciroppi, tisane o, ultimo arrivato, spray.

Se si vuole usare la melatonina meglio farlo sotto la guida di un medico e comprarla in farmacia piuttosto che online o in altri canali commerciali. La melatonina farmaceutica ha un dosaggio preciso rispetto ai prodotti da banco. Uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Sleep Medicine ha concluso che il 71% dei campioni di melatonina non rispettava il dosaggio stabilito e molti lotti contenevano addirittura cinque volte la dose indicata.

CONCLUSIONI

“Le persone pensano che la melatonina sia innocua, in realtà le persone ne abusano e non dovrebbe essere assolutamente usata come trattamento per l’insonnia” spiega Michael Grandner studioso del sonno dell’università dell’Arizona. Secondo uno studio del 2005 condotto dal MIT, il sovradosaggio di melatonina porterebbe all’inefficacia della stessa nel lungo periodo. Quando il cervello viene esposto continuamente all’ormone, quest’ultimo perderebbe la sua efficacia.

“La parola ‘sicura’ per questo farmaco è usata troppo liberamente – sostengono i ricercatori – non ci sono stati ancora studi seri che confermino la totale mancanza di effetti collaterali su bambini e adolescenti”. Anche per gli adulti tuttavia l’uso della melatonina sintetica va riconsiderato. Benché essa sia chimicamente identica a quella prodotta naturalmente dal cervello, può contenere ingredienti che potrebbero causare reazioni inaspettate.

 Dunque perché le persone ancora la usano? “Sfortunatamente ha la reputazione di essere sicura, naturale” dice Grandner. Questa convinzione spiegherebbe il motivo per cui la melatonina è così popolare. Un rapporto dei consumatori afferma che “La melatonina fa addormentare 7 minuti prima e prolunga il sonno di 8 minuti” e lo stesso rapporto sottolinea come “Il 20% di quelli che ne fanno uso hanno accusato un senso di stordimento il giorno successivo”.

“La melatonina non è una cura valida per l’insonnia – ripete Grandner – i problemi che rendono difficile il sonno non vengono risolti dalla melatonina”. Sarebbe meglio, secondo l’esperto, combattere l’insonnia praticando la cosiddetta igiene del sonno, ossia:

  • La stanza in cui si dorme non dovrebbe ospitare altro che l’essenziale per dormire. E’ da sconsigliare la collocazione nella camera da letto di televisore, computer, scrivanie per evitare di stabilire legami tra attività non rilassanti e l’ambiente in cui si deve invece stabilire una condizione di relax che favorisca l’inizio ed il mantenimento del sonno notturno. E dovrebbe essere sufficientemente buia, silenziosa e di temperatura adeguata
  • Evitare di assumere, in particolare nelle ore serali, bevande a base di caffeina o bevande alcoliche a scopo ipno inducente
  • Evitare pasti serali ipercalorici o comunque abbondanti e ad alto contenuto di proteine (carne, pesce)
  • Evitare il fumo di tabacco nelle ore serali
  • Evitare, nelle ore prima di coricarsi, l’esercizio fisico di medio-alta intensità
  • Il bagno caldo serale non dovrebbe essere fatto nell’immediatezza di coricarsi ma a distanza di 1-2 ore
  • Evitare, nelle ore prima di coricarsi, di impegnarsi in attività che risultano particolarmente coinvolgenti sul piano mentale e/o emotivo
  • Cercare di coricarsi la sera e alzarsi al mattino in orari regolari e costanti

RISCHIO: LO CERCHI O LO EVITI?

C’è chi spende in modo scellerato, incurante del domani. Qualche esempio famoso? Kim Basinger, l’icona sexy degli anni ’80, fu costretta a dichiarare bancarotta e a vendere parte di una città che aveva comprato per 20 milioni dollari. Nicolas Cage, l’acquisto smodato di Lamborghini, animali rari e castelli lo ha portato a dilapidare un patrimonio di oltre 150 milioni di dollari, insieme a due isole caraibiche e yacht.

E poi c’è chi pur di non tirare fuori un centesimo, si comporta in modo creativo. Il cantante ultra-miliardario Rod Stewart dopo aver cenato in un ristorante di Los Angeles, tornato a casa ha controllato accuratamente il conto. Quando s’è accorto di aver pagato una bottiglia di acqua pur non avendola consumata è tornato al locale per farsi restituire i soldi. Paul Getty, petroliere e miliardario, quando suo nipote venne rapito in Italia nel 1973, si rifiutò di pagare il riscatto, fino a quando al giovane rampollo non venne tagliato un orecchio.

Fra i due estremi ci sono i parsimoniosi, un nome fra tutti il mercante di Venezia, che guadagnando con il commercio marittimo, per prudenza non impiegava mai tutte le sue imbarcazioni sulla stessa rotta, dirigendole invece verso quattro diverse destinazioni. Così facendo riduceva i rischi: la possibilità che le navi venissero colpite tutte simultaneamente da un evento avverso (pirati, tempeste, malattie…), perdendo il carico o finendo distrutte, si abbassava drasticamente. Per essere precisi, ogni imbarcazione aveva una probabilità su 4 di non tornare dal viaggio; la probabilità che il mercante perdesse tutto e finisse nei guai con il banchiere che lo aveva finanziato, scendeva a 1 su 256.

AVVERSIONE O PROPENSIONE AL RISCHIO?

Scomodando cantanti, attori e uomini di affari, abbiamo introdotto il concetto di avversione e propensione al rischio: atteggiamento che cambia a seconda dei contesti e della persona. Si può infatti essere propensi a rischiare alla guida di un’auto, ma prudenti in Borsa, praticare sport estremi ma non apprezzare l’incertezza sentimentale, recarsi al casinò con frequenza ma sottoporsi meticolosamente a check up medici.

Quale atteggiamento assumiamo di fronte al rischio, dipende da molti fattori e la materia che se ne occupa prende il nome di finanza comportamentale (branca degli studi economici che indaga i comportamenti dei mercati finanziari), fondata dal premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman e dal collega prematuramente scomparso Amos Tversky.

In altre parole la perdita di una somma, qualunque essa sia, pesa nella nostra mente, soggettivamente, molto più della vincita di quella stessa somma. Precisamente, il rapporto di avversione alla perdita oscilla tra 2,25 a 2,5: a fronte di una perdita di 100 euro, occorrerà guadagnare fra 225 e 250 euro perché il nostro cervello ritrovi serenità.

Traduciamo il tutto in un esempio.

Immagina di essere convocato nell’ufficio del capo e di venir informato che avrai un aumento di 1000 euro. Quanto valuteresti l’impatto psicologico positivo della notizia, su una scala da 1 a 10?

Ora immagina che ti si comunichi non un aumento, ma una riduzione dello stipendio di 1000 euro. Per la maggior parte delle persone l’impatto psicologico negativo di una notizia del genere, è maggiore rispetto a quello positivo collegato all’aumento. Non tutti infatti sono avversi e propensi alle perdite nello stesso modo. Per esempio, coloro che per professione si assumono rischi nei mercati finanziari tollerano meglio le perdite: quando ai partecipanti a un esperimento venne detto di “pensare come trader”, essi diventarono meno avversi e la loro reazione emozionale alle perdite si ridusse sensibilmente.

PERCHE’ ABBIAMO BISOGNO DI PROVARE IL BRIVIDO DEL RISCHIO

Sta prendendo sempre più piede il fenomeno dei Sensation Seekers, letteralmente “cercatori di emozioni estreme” il quale, strettamente correlato al concetto di rischio, pone in evidenza la motivazione che sollecita il singolo individuo alla pratica di uno sport estremo. Persone che il rischio lo cercano di continuo, anzi diventa una sorta di dipendenza da adrenalina che li induce ad alzare sempre più l’asticella emozionale.

Infatti con tale espressione si fa riferimento a individui che nutrono un’attrazione particolare per attività rischiose, di qualunque genere, che vengono esercitate principalmente con l’obiettivo di sfidare la morte. Il concetto di sensation seekers si deve a Zuckerman, il quale mediante esperimenti sulle ripercussioni a lungo termine dell’impoverimento di stimoli (deprivazione sensoriale) aveva notato che alcuni individui presentavano la tendenza a sopportare le situazioni monotone a cui venivano sottoposti, meglio di altri che, al contrario, tendevano a diventare subito inquieti, provando sensazioni di forte avversione in assenza di stimoli.

Secondo quanto ipotizzato da Zuckerman, le differenze dipendevano da una particolare disposizione comportamentale. I sensation seekers sono risultati essere persone relativamente giovani, con caratteristiche di personalità impulsive ed a tratti aggressive, molto curiose, anticonformiste e con livelli di ansia relativamente bassi. Attraverso condotte trasgressive, mettono alla prova la loro capacità di controllo degli eventi ed hanno come obiettivo il superamento della noia che caratterizza la loro vita quotidiana (ad esempio, guida automobilistica spericolata, assunzione di droghe e alcool che riducono i freni inibitori). Anche investire in modo azzardato o buttarsi in spese folli (e non solo fare sport estremi), permette di allontanare il fattore noia. Almeno per un po’.

DOVE TI RITROVI?

Probabilmente ti starai domandando qual è il tuo atteggiamento predominante fra avversione e propensione al rischio. Ti sottopongo alcuni quesiti proposti dallo stesso Kahneman. Concentrati solo sull’influenza soggettiva della possibile perdita o sul guadagno che ne deriva e rispondi sinceramente:

1) Considera un’opzione di rischio al 50-50 in cui perdi 10 euro. A partire da quale guadagno l’opzione ti sembra allettante?

2) Cosa pensi dell’eventualità di perdere 500 euro con il lancio di una moneta? Quale guadagno la compenserebbe?

3) E una perdita di 2000 Euro?

Facendo questo esercizio avrai notato che il tuo coefficiente di avversione alla perdita tende ad aumentare, anche se non in misura enorme, a mano a mano che aumenta la posta in gioco. Nessuna scommessa sarebbe allettante se la potenziale perdita fosse rovinosa. In tali casi il coefficiente di avversione alla perdita è molto elevato: vi sono rischi che non accetteresti mai, indipendentemente da quanti milioni potresti vincere se fossi fortunato.

RISCHIO E CONDIZIONAMENTO

Che la nostra propensione sia pro o contro i rischi, ciò che è importante è avere bene in testa gli obiettivi che si vogliono raggiungere, più che farsi guidare dall’emozionalità del momento. Per ottenere risultati migliori è fondamentale essere consapevoli del modo in cui l’avversione alla perdita o la propensione al rischio incidono sulle decisioni a lungo e a breve termine.

Un errore potrebbe essere quello di immaginare il futuro sulla base dell’esperienza del passato. Il passato, purtroppo, contiene informazioni solo sul passato… e il rischio è quello di fare la fine del “Tacchino Induttivista” di Bertrand Russell e Karl Popper.

Russell fa l’esempio del tacchino accudito con estrema cura che ogni giorno riceve acqua e cibo. Così gradualmente si abitua alla confortevole situazione ed aumenta la sua fiducia e sicurezza. La fiducia del tacchino cresce giorno dopo giorno finché si interrompe bruscamente (e tragicamente, almeno dal punto di vista del tacchino) il Giorno del Ringraziamento!

Il povero tacchino era servito a Bertrand Russell per dimostrare i rischi del pensare che il passato abbia tutte le informazioni utili per il futuro. E’ lo stesso rischio che corriamo anche noi quando ci cimentiamo nel fare previsioni (di qualunque tipo). Insomma, siamo macchine fatte per sbagliare… O meglio, siamo macchine perfettamente evolute per sopravvivere nel mondo naturale, ma molto meno adatte al mondo artificiale e complesso del lavoro. Saperlo non ci salva, ma ci aiuta.

TRE CONSIGLI PER PRENDERE DECISIONI RISCHIANDO IL GIUSTO

  1. Non pensare d’avere sempre ragione. L’overconfidence è il motore che spinge a osare, il segreto dei grandi imprenditori e di tutti gli uomini e le donne di successo. Meglio non esagerare con la fiducia sulla propria capacità di giudizio, la storia è piena di esperti che hanno commesso grossolani errori. Il direttore della Metro Goldwin Mayer aveva previsto un fiasco clamoroso per il film “Via col vento”, il direttore artistico della Decca aveva pronosticato il sicuro insuccesso delle “band che suonano con la chitarra elettrica”, Beatles compresi.
  2. Non cercare conferme alle tue scelte. Siamo dotati di potenti sistemi di protezione della nostra autostima: se, una volta compiuta una scelta, incappassimo in informazioni che la indebolissero ci sentiremmo stupidi, e nessuno vuole sentirsi stupido. Al contrario, dobbiamo mettere alla prova le nostre convinzioni. Le certezze non esistono, la ricerca di notizie che confermino le nostre idee porta a trascurare la veridicità e qualità delle notizie ma, soprattutto, porta ad ignorare le notizie che negano quanto pensiamo! Meglio un sano dubbio che una insana certezza.
  3. Non seguire il gregge. Si può seguire la maggioranza solo in poche occasioni, magari in vacanza quando si è indecisi sulla scelta del ristorante. Capita troppo spesso che gli “altri” abbiano scelto imitando a loro volta il comportamento di altri… Resistete alla tentazione di sentirvi al sicuro solo perché “così fan tutti”.

GELOSO DA MORIRE. LA SINDROME CHE TRASFORMA L’AMORE IN MALATTIA

E’ sera inoltrata. Solo in casa, inganni il sonno navigando sui social, leggendo distratto notizie qua e là, quasi senza meta. All’improvviso qualcosa ti costringe a spulciare la timeline di Facebook del partner, con una precisione certosina da far impallidire un analista dei servizi segreti. E ti tormenti analizzando le foto in cui la lei/lui di turno sorride in mezzo agli amici, e ti chiedi ragione di ogni post i cui like fioccano come la neve a gennaio. Tutto è un indizio, pugnalate lievi ma precise nella pelle martoriata dalla gelosia.

La gelosia, quella dannata sensazione così difficile da esprimere a parole, ma dalle emozioni definite e chiare… La cartina di tornasole di tanti patimenti e inganni, con cui poeti, cantanti e scrittori hanno fatto fortuna.

Un po’ di gelosia è sana e anche utile, ben diversa è quella patologica e nello specifico quella nota come sindrome di Otello, dal dramma di Shakespeare Otello, il moro di Venezia, dove il personaggio uccide la moglie perché convinto della sua infedeltà.

QUANDO LA GELOSIA DIVENTA MALATTIA

La psicoterapeutica alla Goldsmiths University di Londra, Windy Drydon, sostiene che i disturbi legati alla gelosia patologica portino le persone a vedere una realtà distorta dove la relazione è ambigua e nasconde un tradimento mirato esclusivamente a provocare dolore e a sconfiggere l’autostima.

Si può chiamare anche gelosia morbosa e colpisce moltissime persone, donne e uomini, di tutte le culture e ceti sociali. “A volte a scatenare la gelosia morbosa è un semplice atteggiamento gentile del partner nei confronti del sesso opposto, e talvolta, anche quando rivolto allo stesso sesso. Nei casi più estremi, si arriva a uccidere il proprio partner per poi suicidarsi”. Ecco svelato il perché del riferimento alla famosa opera di Shakespeare.

Il mondo digitale e dei social network non è un toccasana per le patologie come la Sindrome di Otello, in quanto l’essere a continuo contatto con le immagini della vita altrui ci fa sentire in perenne confronto con gli altri e di conseguenza gelosi. Secondo un’analisi di Scope, una charity dedicata alle disabilità sociali, il 62% degli utenti online si sentirebbe inadeguato e svilupperebbe forme di gelosia estreme a causa del web.

Spesso la Sindrome di Otello ha i suoi primi sintomi proprio nel mondo digitale: si comincia con l’ossessione da social network, quando si controllano nervosamente le pagine Facebook, Twitter, Instagram del partner per trovare atteggiamenti sospetti che denuncino un tradimento o una mancanza di rispetto.

COME NASCE LA GELOSIA

Non è un’emozione primaria come rabbia, vergogna o tristezza, bensì qualcosa di più complesso che richiede un’elaborazione più articolata. La gelosia è un sentimento fatto di ansia e incertezza, e la diretta conseguenza può essere la rabbia verso chi sia più considerato dalla persona amata, ma anche verso la stessa persona amata. Molti psicologi e psichiatri sono d’accordo nel sostenere che nella gelosia morbosa prevale la dimensione ansiosa e di insicurezza: quando cioè il geloso si sente inadeguato rispetto il partner. La gelosia si avvicina al vissuto della rabbia e dell’odio, invece, quando la sensazione è quella di patire un torto, un tradimento, di essere parte lesa. E’ quindi spesso associata a tratti quali la moralità, la rigidità valoriale, una visione del mondo dicotomica, semplicistica e riduzionistica ma totalizzante. Ha molto a che fare con il bisogno di primeggiare, di essere il numero uno nei pensieri e nei desideri di qualcuno.

Esistono varie sfumature che la gelosia assume nel diventare sindrome di Otello. C’è chi la vive in un contesto di sadismo e possessività, dove la persona amata diventa un oggetto an-empatico, dove addirittura il piacere è dato dalla sofferenza dell’altro. C’è chi la vive in modo delirante, in cui, a fronte di un’inconsistenza di prove, la persona gelosa è assolutamente convinta del tradimento. Non si tratta solo di attimi di irrazionalità, ma di veri e propri pensieri strutturati in cui c’è la convinzione di essere traditi. Queste forme sono rare e appartengono alla psicopatologia.

Il caso psichiatrico più grave di gelosia delirante pare essere quello dell’erotomania: la convinzione di essere amato e poter dunque vantare diritti su una persona che spesso nemmeno si conosce, dove si delinea un percorso emotivo che va dalla speranza fino al rancore, passando attraverso il dispetto.

CHI SONO I GELOSI MORBOSI?

La cronaca nera riporta spesso raptus vissuti da profili identificabili in situazioni note. Più del 60% dei casi infatti riguarda coppie sposate, mentre oltre l’85% delle volte è l’uomo a uccidere. Il quadro professionale degli autori dei delitti è quello medio-basso, con un’alta presenza di disoccupati, con un’età che varia dai 31 ai 51 anni. Il delinquente passionale è una persona che si caratterizza per un attaccamento con la figura materna, fatto di paura di non essere accudito, di ansia per la mancanza di protezione, con conseguente desiderio di un’amore-fusionale, una sorta di fissazione che impedisce la realizzazione di un amore maturo.

GELOSIA E CERVELLO

La gelosia delirante a cui sono associati comportamenti aggressivi come lo stalking, il suicidio o l’omicidio sarebbe legata ad uno squilibrio di una specifica area del cervello. È il risultato di uno studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Pisa, pubblicato sulla rivista «Cns – Spectrums» della Cambridge University Press.

Secondo gli autori, le radici neuronali della sindrome di Otello si troverebbero nella corteccia frontale ventro-mediale, un’area del cervello che sovrintende complessi processi cognitivi e affettivi.

Se la gelosia è un sentimento del tutto naturale, il punto è individuare lo squilibrio biochimico che trasforma questo sentimento in un’ossessione pericolosa. Pensare che la relazione con la persona amata sia l’unica cosa importante della propria vita, interpretare erroneamente i comportamenti e i sentimenti del partner e percepire la sua perdita come una totale catastrofe sono ad esempio sintomi che alla fine possono portare a comportamenti aggressivi ed estremi. «La speranza – spiegano gli autori dello studio – è che una maggiore conoscenza dei circuiti cerebrali e delle alterazioni biochimiche che sottendono i vari aspetti della gelosia delirante, possa aiutare ad arrivare ad un’identificazione precoce dei soggetti a rischio».

COME RICONOSCERE LA SINDROME DI OTELLO

Alcuni aspetti che caratterizzano la sindrome:

  • Incorporazione di una terza parte immaginaria nella relazione della coppia.
  • Il soggetto non sa come controllare la sua gelosia perché non è consapevole del suo problema.
  • È costantemente vigile e vigile con le abitudini del suo partner.
  • Percezione errata degli eventi quotidiani della coppia, legati alla gelosia. Cerca sempre la giustificazione una situazione di inganno.
  • Impossibilità di controllare impulsi, pensieri, false percezioni autoimposte.

COME COMPORTARSI CON UN POTENZIALE OTELLO

Sempre secondo gli studi condotti dalla Drydon, coloro che hanno una relazione con chi soffre di questa patologia dovrebbero non eccessivamente rassicurare il partner. Piuttosto rivolgersi al partner geloso con affermazioni come “Ti amo, ma non risponderò a questa domanda“, perché la continua ostentazione di rassicurazione farebbe più male che bene al soggetto morbosamente geloso. “I gelosi ossessivi devono far fronte alla loro paura che non ci si può fidare di nessuno e capire con le loro forze che la radice di quella gelosia morbosa è patologica e quindi non fondata sulla realtà“. La Sindrome di Otello infatti porta a paranoia e mania del controllo sugli altri, atteggiamenti decisamente nocivi per la coppia e per lo stesso individuo.

Stando agli psicologi, non esiste una vera e propria cura per la Sindrome di Otello, ma ciò che può essere fatto per sfuggire alle grinfie del personaggio Shakespeariano è anzitutto riconoscere di essere dei gelosi morbosi. Molto spesso la gelosia morbosa porta all’impossibilità di godersi il tempo con se stessi e con gli altri, per esempio guardare un film o ascoltare la musica, perché le scene dei film e le parole delle canzoni fanno personalizzare il soggetto nelle situazioni amorose e causano depressione, ansia, panico, paranoia. Parlare di questo disturbo senza filtri però si può ed è molto più comune di quello che pensiamo.

Il consiglio migliore è comunque sempre quello di rivolgersi a uno specialista.