Tag Archivio per: #conoscenza

VIAGGIO NEL CERVELLO FRA MITI, ILLUSIONI E IL DESIDERIO DI DIVENTARE IMMORTALI

Qualche notte fa, incapace di prendere sonno, facendo zapping da un canale all’altro, sono incappato in un film culto Frankenstein Junior di Mel Brooks, in cui il giovane medico Frederick Frankenstein scopre un fluido magnetico per mezzo del quale, innestando un nuovo cervello in un uomo morto, lo riporta in vita.

Dibattito infinito quello sul trapianto di cervello, oggi molto meno chimera grazie agli sviluppi e le scoperte in ambito medico, della genetica e delle neuroscienze, ma ancora di difficile realizzazione. Almeno su un paziente vivo.

Goloso di saperne di più, ho trascorso parte delle successive notti a cercare indizi per capire se il trapianto di testa, è una speculazione o il prossimo futuro. E ho scoperto che tenere in vita le cellule del cervello è tutt’altro che semplice.

In un articolo pubblicato sul sito di Medicina tedesco Ärzte Zeitung (poi rimosso, ma di cui rimane una copia cache), si legge che un team di ricercatori dell’Università di Yale diretto da Nenad Sestan sarebbe riuscito a ripristinare parzialmente le funzioni cerebrali di 32 cervelli di maiale, collegati al sistema BrainEx, in grado di fornire la giusta circolazione sanguigna e temperatura corporea agli organi.

«Dopo sei ore di perfusione, i ricercatori hanno osservato una riduzione delle cellule morte e hanno trovato evidenza di alcune funzioni cellulari, come l’attività della sinapsi. Tuttavia, non c’erano segni di funzioni cerebrali come la coscienza e la percezione».

Scopro altresì che quello di Sestan non è il primo studio sull’argomento e scartabellando qui e là, ho dovuto mettere molto impegno nel tenere a freno la fantasia e rimanere sul concreto.

Infatti pur sapendo che il lavoro di Sestan aveva risuscitato alcunchè e nemmeno ripristinato coscienza e percezione, mi piaceva credere di poter trovare di lì a poco, qualche altro studio che dicesse il contrario. Alla fine mi sono dovuto accontentare del fatto che questi esperimenti sono utili nel trattare danni cerebrali e capire qualcosa di più di un organo altamente complesso.

Niente, fra ciò che leggevo, dava risposta alla domanda più importante: è possibile ripristinare completamente la funzione cerebrale?

Ricerche del 2018 pubblicate sulla rivista del MIT, hanno dimostrato che il cervello potrebbe sopravvivere anche 36 ore dopo la separazione dal corpo. La ricerca riguardava anche allora dei cervelli di maiale sottoposti nuovamente a flusso sanguigno, i risultati vennero presentati al National Institutes of Health negli Stati Uniti nel marzo 2018.

Il neuroscienziato della Yale University ha rivelato che una squadra da lui guidata aveva sperimentato tra 100 e 200 cervelli di maiale ottenuti da un macello, ripristinando la circolazione usando un sistema di pompe, riscaldatori e sacchi di sangue artificiale riscaldati a temperatura corporea.

IL TRAPIANTO DI CERVELLO E’ TUTT’ALTRA COSA

Anche in quel caso non vi era alcuna evidenza di un ripristino di coscienza nei cervelli, mentre è stato riscontrato un prolungamento della vita di una parte delle cellule cerebrali. La tecnica ricorda quella utilizzata per conservare gli organi destinati al trapianto; a parte questo non può però essere riscontrata una tecnica in grado di riportare in vita le persone, magari dopo una decapitazione, tanto meno eseguire dei «trapianti di testa», possibili solo ed esclusivamente col decesso del paziente.

Il più recente articolo firmato da Sestan pubblicato su Current Opinion in Neurobiology «Shared and derived features of cellular diversity in the human cerebral cortex» , riguarda l’organizzazione dei neuroni nella corteccia cerebrale umana, quella dove è possibile trovare anche le funzioni che ci rendono coscienti.

Oltre Sestan un altro neuroscienziato ha portato l’attenzione su di sé, proclamando nel 2017, durante una conferenza stampa a Vienna, un’operazione che sarebbe stata effettuata in Cina su due cadaveri, dove la testa di uno e il corpo di un altro, sarebbero stati “assemblati” connettendo colonna vertebrale, nervi e vasi sanguigni, durante un intervento lungo 18 ore.

A ben vedere un intervento su due cadaveri non è un trapianto. Almeno non dal punto di vista tecnico. E dunque non è corretto parlare di trapianto di testa.

Il neurochirurgo in questione è il torinese Sergio Canavero, della Harbin Medical University, in Cina.

UN TRAPIANTO SU UN MORTO CHE UTILITA’ HA?

Così mi sono chiesto: se i pazienti arrivano sul tavolo operatorio già morti, che senso ha un trapianto?

A fornirmi la risposta è Dean Burnett, neuroscienziato e giornalista, sul Guardian, «forse la procedura adottata è stata una buona dimostrazione di come “attaccare” nervi e vasi sanguigni su larga scala, ma con ciò? È solo l’inizio di ciò che serve perché un corpo funzioni. Puoi assemblare due metà di auto diverse e definirlo un successo, se vuoi, ma nel momento in cui giri la chiave e il tutto esplode, la maggior parte delle persone avrebbe qualche difficoltà a sostenere che è stata una brillante idea».

PERCHÉ È COSÌ DIFFICILE TRAPIANTARE UNA TESTA?

Dal punto di vista medico, il trapianto totale di corpo presenta almeno tre grandi, invalicabili criticità: le migliaia di nervi contenuti nei due monconi del midollo spinale, la temperatura del cervello e il problema del rigetto.

Se alcuni organi, come il cuore, sono relativamente facili da trapiantare (perché basta connettere un numero limitato di vasi), altri sono praticamente impossibili da trasferire da un corpo a un altro. Uno di questi è il midollo spinale: perché possa tornare funzionante ci sono milioni di connessioni neurali che andrebbero ripristinate, e finora non è mai stato possibile un trapianto simile.

Sarebbe un’impresa monumentale: nel 2017 è stata trapiantata con estrema pazienza e difficoltà,  una mano. Altri successi in fatto di trapianti, come quello di volto, di pene, di utero, hanno richiesto decenni di tentativi e sono già considerati rivoluzionari.

Canavero dice di aver già eseguito con successo un trapianto di testa su ratti e scimmie, ma anche queste affermazioni sono discutibili: il primate non si è mai risvegliato dall’operazione, ed è stato lasciato attaccato alle macchine che lo tenevano in vita per 20 ore “per ragioni etiche“.

Un altro non trascurabile dettaglio che rende difficile trapiantare una testa, riguarda il fatto che il cervello inizia a degradarsi e morire dopo pochissimi minuti senza ossigenazione, riportando danni permanenti. Anche raffreddandolo il più possibile, lo si potrebbe tenere in vita abbastanza a lungo da avere il tempo di ricucire con pazienza le milioni di connessioni neurali? Probabilmente no, e ogni danno cerebrale annullerebbe l’utilità di un trapianto totale di corpo (almeno prima il cervello funzionava).

Infine, quale sarebbe l’impatto psicologico sul paziente? A differenza dei trapianti di organi interni, quelli di parti visibili come il volto, le mani o il pene presentano altissime probabilità di rifiuto psicologico da parte del paziente, che pure ne sentiva la necessità.

Il successo del primo trapianto di pene è stato in parte offuscato dalle richieste del paziente di rimuovere i nuovi genitali, che sentiva di non riconoscere. Avviene spesso anche con le mani – con i pazienti che si trovano a preferire protesi visibilmente finte ad appendici appartenute a qualcun altro. La sensazione di avere addosso un intero corpo (morto) di uno sconosciuto potrebbe avere effetti devastanti sulla psiche. Che dire poi dei farmaci antirigetto presi per evitare che un corpo appena arrivato rigetti il “vecchio” cervello? Chi sarebbe a quel punto il legittimo proprietario?

Domande legittime che mi riportano a un altro film di qualche anno fa, non meno ricco di irrisolti, da lasciarmi anche allora insonne.

BOGOWIE: L’OPERAZIONE E’ RIUSCITA

Bogowie narra di Religa: il primo medico a effettuare un trapianto di cuore in Polonia nel 1985. Un’operazione, avvenuta diciotto anni dopo quella del pioniere sudafricano Christian Barnaard ma che resta rivoluzionaria visto il luogo, il contesto storico e le precarie condizioni in cui venne effettuata.

Erano in molti, colleghi compresi, a osteggiare il cardiochirurgo, accusato di mettere a repentaglio la vita dei propri pazienti per mettersi in mostra. Dall’altro, milioni di polacchi erano diffidenti nei confronti di un trapianto cardiaco per motivi morali e religiosi visto l’altissimo valore simbolico del cuore visto come sede di anima e sentimenti per molti fedeli cattolici. ‘Mentre invece sappiamo benissimo che si tratta di un muscolo‘ ribadisce Zbigniew Religa.

Bogowie, non a caso, significa ‘Dei’ ed è proprio di questo che Religa e i suoi colleghi chirurghi della clinica di Zabrze, in Slesia, sono stati accusati. Medici che, lungi dall’arrogarsi il diritto di sostituirsi a Dio, ritengono invece di avere il dovere morale e professionale di tentare di salvare uomini e donne.

Pazienti spesso ritenuti casi disperati e, come tali, a loro volta consapevoli di giocarsi il tutto per tutto pronti percio’ ad affidarsi alle mani e ai ferri dei giovani e coraggiosi chirurghi polacchi.

Al pari delle persone che decidono di sottoporsi a trapianto cardiaco nella sua clinica, Religa ha molto da perdere in caso di insuccesso: la vita privata ma anche i preziosi finanziamenti che gli consentono di tenere aperta la clinica, oltre al prestigio professionale. Ma soprattutto Religa rischia di compromettere irrimediabilmente la fiducia in se stesso e nella propria capacità di salvare il prossimo. Non a caso ogni operazione fallita, ogni crisi di rigetto post-operatorio, ogni paziente scomparso lo portano a scivolare nell’alcool e nell’isolamento.

Chissà – rifletto mentre le ultime scene del film sfumano -, forse qualcuno vuole davvero sostituirsi a Dio, ma credo che i più vogliano solo salvare uomini e donne malati. Difficile stimare i confini fra dove finisce l’etica e dove inizia la brama personale. Un tempo era il cuore, oggi è il cervello.

Buona riflessione a tutti.

GELOSO DA MORIRE. LA SINDROME CHE TRASFORMA L’AMORE IN MALATTIA

E’ sera inoltrata. Solo in casa, inganni il sonno navigando sui social, leggendo distratto notizie qua e là, quasi senza meta. All’improvviso qualcosa ti costringe a spulciare la timeline di Facebook del partner, con una precisione certosina da far impallidire un analista dei servizi segreti. E ti tormenti analizzando le foto in cui la lei/lui di turno sorride in mezzo agli amici, e ti chiedi ragione di ogni post i cui like fioccano come la neve a gennaio. Tutto è un indizio, pugnalate lievi ma precise nella pelle martoriata dalla gelosia.

La gelosia, quella dannata sensazione così difficile da esprimere a parole, ma dalle emozioni definite e chiare… La cartina di tornasole di tanti patimenti e inganni, con cui poeti, cantanti e scrittori hanno fatto fortuna.

Un po’ di gelosia è sana e anche utile, ben diversa è quella patologica e nello specifico quella nota come sindrome di Otello, dal dramma di Shakespeare Otello, il moro di Venezia, dove il personaggio uccide la moglie perché convinto della sua infedeltà.

QUANDO LA GELOSIA DIVENTA MALATTIA

La psicoterapeutica alla Goldsmiths University di Londra, Windy Drydon, sostiene che i disturbi legati alla gelosia patologica portino le persone a vedere una realtà distorta dove la relazione è ambigua e nasconde un tradimento mirato esclusivamente a provocare dolore e a sconfiggere l’autostima.

Si può chiamare anche gelosia morbosa e colpisce moltissime persone, donne e uomini, di tutte le culture e ceti sociali. “A volte a scatenare la gelosia morbosa è un semplice atteggiamento gentile del partner nei confronti del sesso opposto, e talvolta, anche quando rivolto allo stesso sesso. Nei casi più estremi, si arriva a uccidere il proprio partner per poi suicidarsi”. Ecco svelato il perché del riferimento alla famosa opera di Shakespeare.

Il mondo digitale e dei social network non è un toccasana per le patologie come la Sindrome di Otello, in quanto l’essere a continuo contatto con le immagini della vita altrui ci fa sentire in perenne confronto con gli altri e di conseguenza gelosi. Secondo un’analisi di Scope, una charity dedicata alle disabilità sociali, il 62% degli utenti online si sentirebbe inadeguato e svilupperebbe forme di gelosia estreme a causa del web.

Spesso la Sindrome di Otello ha i suoi primi sintomi proprio nel mondo digitale: si comincia con l’ossessione da social network, quando si controllano nervosamente le pagine Facebook, Twitter, Instagram del partner per trovare atteggiamenti sospetti che denuncino un tradimento o una mancanza di rispetto.

COME NASCE LA GELOSIA

Non è un’emozione primaria come rabbia, vergogna o tristezza, bensì qualcosa di più complesso che richiede un’elaborazione più articolata. La gelosia è un sentimento fatto di ansia e incertezza, e la diretta conseguenza può essere la rabbia verso chi sia più considerato dalla persona amata, ma anche verso la stessa persona amata. Molti psicologi e psichiatri sono d’accordo nel sostenere che nella gelosia morbosa prevale la dimensione ansiosa e di insicurezza: quando cioè il geloso si sente inadeguato rispetto il partner. La gelosia si avvicina al vissuto della rabbia e dell’odio, invece, quando la sensazione è quella di patire un torto, un tradimento, di essere parte lesa. E’ quindi spesso associata a tratti quali la moralità, la rigidità valoriale, una visione del mondo dicotomica, semplicistica e riduzionistica ma totalizzante. Ha molto a che fare con il bisogno di primeggiare, di essere il numero uno nei pensieri e nei desideri di qualcuno.

Esistono varie sfumature che la gelosia assume nel diventare sindrome di Otello. C’è chi la vive in un contesto di sadismo e possessività, dove la persona amata diventa un oggetto an-empatico, dove addirittura il piacere è dato dalla sofferenza dell’altro. C’è chi la vive in modo delirante, in cui, a fronte di un’inconsistenza di prove, la persona gelosa è assolutamente convinta del tradimento. Non si tratta solo di attimi di irrazionalità, ma di veri e propri pensieri strutturati in cui c’è la convinzione di essere traditi. Queste forme sono rare e appartengono alla psicopatologia.

Il caso psichiatrico più grave di gelosia delirante pare essere quello dell’erotomania: la convinzione di essere amato e poter dunque vantare diritti su una persona che spesso nemmeno si conosce, dove si delinea un percorso emotivo che va dalla speranza fino al rancore, passando attraverso il dispetto.

CHI SONO I GELOSI MORBOSI?

La cronaca nera riporta spesso raptus vissuti da profili identificabili in situazioni note. Più del 60% dei casi infatti riguarda coppie sposate, mentre oltre l’85% delle volte è l’uomo a uccidere. Il quadro professionale degli autori dei delitti è quello medio-basso, con un’alta presenza di disoccupati, con un’età che varia dai 31 ai 51 anni. Il delinquente passionale è una persona che si caratterizza per un attaccamento con la figura materna, fatto di paura di non essere accudito, di ansia per la mancanza di protezione, con conseguente desiderio di un’amore-fusionale, una sorta di fissazione che impedisce la realizzazione di un amore maturo.

GELOSIA E CERVELLO

La gelosia delirante a cui sono associati comportamenti aggressivi come lo stalking, il suicidio o l’omicidio sarebbe legata ad uno squilibrio di una specifica area del cervello. È il risultato di uno studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Pisa, pubblicato sulla rivista «Cns – Spectrums» della Cambridge University Press.

Secondo gli autori, le radici neuronali della sindrome di Otello si troverebbero nella corteccia frontale ventro-mediale, un’area del cervello che sovrintende complessi processi cognitivi e affettivi.

Se la gelosia è un sentimento del tutto naturale, il punto è individuare lo squilibrio biochimico che trasforma questo sentimento in un’ossessione pericolosa. Pensare che la relazione con la persona amata sia l’unica cosa importante della propria vita, interpretare erroneamente i comportamenti e i sentimenti del partner e percepire la sua perdita come una totale catastrofe sono ad esempio sintomi che alla fine possono portare a comportamenti aggressivi ed estremi. «La speranza – spiegano gli autori dello studio – è che una maggiore conoscenza dei circuiti cerebrali e delle alterazioni biochimiche che sottendono i vari aspetti della gelosia delirante, possa aiutare ad arrivare ad un’identificazione precoce dei soggetti a rischio».

COME RICONOSCERE LA SINDROME DI OTELLO

Alcuni aspetti che caratterizzano la sindrome:

  • Incorporazione di una terza parte immaginaria nella relazione della coppia.
  • Il soggetto non sa come controllare la sua gelosia perché non è consapevole del suo problema.
  • È costantemente vigile e vigile con le abitudini del suo partner.
  • Percezione errata degli eventi quotidiani della coppia, legati alla gelosia. Cerca sempre la giustificazione una situazione di inganno.
  • Impossibilità di controllare impulsi, pensieri, false percezioni autoimposte.

COME COMPORTARSI CON UN POTENZIALE OTELLO

Sempre secondo gli studi condotti dalla Drydon, coloro che hanno una relazione con chi soffre di questa patologia dovrebbero non eccessivamente rassicurare il partner. Piuttosto rivolgersi al partner geloso con affermazioni come “Ti amo, ma non risponderò a questa domanda“, perché la continua ostentazione di rassicurazione farebbe più male che bene al soggetto morbosamente geloso. “I gelosi ossessivi devono far fronte alla loro paura che non ci si può fidare di nessuno e capire con le loro forze che la radice di quella gelosia morbosa è patologica e quindi non fondata sulla realtà“. La Sindrome di Otello infatti porta a paranoia e mania del controllo sugli altri, atteggiamenti decisamente nocivi per la coppia e per lo stesso individuo.

Stando agli psicologi, non esiste una vera e propria cura per la Sindrome di Otello, ma ciò che può essere fatto per sfuggire alle grinfie del personaggio Shakespeariano è anzitutto riconoscere di essere dei gelosi morbosi. Molto spesso la gelosia morbosa porta all’impossibilità di godersi il tempo con se stessi e con gli altri, per esempio guardare un film o ascoltare la musica, perché le scene dei film e le parole delle canzoni fanno personalizzare il soggetto nelle situazioni amorose e causano depressione, ansia, panico, paranoia. Parlare di questo disturbo senza filtri però si può ed è molto più comune di quello che pensiamo.

Il consiglio migliore è comunque sempre quello di rivolgersi a uno specialista.