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RISCHIO: LO CERCHI O LO EVITI?

C’è chi spende in modo scellerato, incurante del domani. Qualche esempio famoso? Kim Basinger, l’icona sexy degli anni ’80, fu costretta a dichiarare bancarotta e a vendere parte di una città che aveva comprato per 20 milioni dollari. Nicolas Cage, l’acquisto smodato di Lamborghini, animali rari e castelli lo ha portato a dilapidare un patrimonio di oltre 150 milioni di dollari, insieme a due isole caraibiche e yacht.

E poi c’è chi pur di non tirare fuori un centesimo, si comporta in modo creativo. Il cantante ultra-miliardario Rod Stewart dopo aver cenato in un ristorante di Los Angeles, tornato a casa ha controllato accuratamente il conto. Quando s’è accorto di aver pagato una bottiglia di acqua pur non avendola consumata è tornato al locale per farsi restituire i soldi. Paul Getty, petroliere e miliardario, quando suo nipote venne rapito in Italia nel 1973, si rifiutò di pagare il riscatto, fino a quando al giovane rampollo non venne tagliato un orecchio.

Fra i due estremi ci sono i parsimoniosi, un nome fra tutti il mercante di Venezia, che guadagnando con il commercio marittimo, per prudenza non impiegava mai tutte le sue imbarcazioni sulla stessa rotta, dirigendole invece verso quattro diverse destinazioni. Così facendo riduceva i rischi: la possibilità che le navi venissero colpite tutte simultaneamente da un evento avverso (pirati, tempeste, malattie…), perdendo il carico o finendo distrutte, si abbassava drasticamente. Per essere precisi, ogni imbarcazione aveva una probabilità su 4 di non tornare dal viaggio; la probabilità che il mercante perdesse tutto e finisse nei guai con il banchiere che lo aveva finanziato, scendeva a 1 su 256.

AVVERSIONE O PROPENSIONE AL RISCHIO?

Scomodando cantanti, attori e uomini di affari, abbiamo introdotto il concetto di avversione e propensione al rischio: atteggiamento che cambia a seconda dei contesti e della persona. Si può infatti essere propensi a rischiare alla guida di un’auto, ma prudenti in Borsa, praticare sport estremi ma non apprezzare l’incertezza sentimentale, recarsi al casinò con frequenza ma sottoporsi meticolosamente a check up medici.

Quale atteggiamento assumiamo di fronte al rischio, dipende da molti fattori e la materia che se ne occupa prende il nome di finanza comportamentale (branca degli studi economici che indaga i comportamenti dei mercati finanziari), fondata dal premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman e dal collega prematuramente scomparso Amos Tversky.

In altre parole la perdita di una somma, qualunque essa sia, pesa nella nostra mente, soggettivamente, molto più della vincita di quella stessa somma. Precisamente, il rapporto di avversione alla perdita oscilla tra 2,25 a 2,5: a fronte di una perdita di 100 euro, occorrerà guadagnare fra 225 e 250 euro perché il nostro cervello ritrovi serenità.

Traduciamo il tutto in un esempio.

Immagina di essere convocato nell’ufficio del capo e di venir informato che avrai un aumento di 1000 euro. Quanto valuteresti l’impatto psicologico positivo della notizia, su una scala da 1 a 10?

Ora immagina che ti si comunichi non un aumento, ma una riduzione dello stipendio di 1000 euro. Per la maggior parte delle persone l’impatto psicologico negativo di una notizia del genere, è maggiore rispetto a quello positivo collegato all’aumento. Non tutti infatti sono avversi e propensi alle perdite nello stesso modo. Per esempio, coloro che per professione si assumono rischi nei mercati finanziari tollerano meglio le perdite: quando ai partecipanti a un esperimento venne detto di “pensare come trader”, essi diventarono meno avversi e la loro reazione emozionale alle perdite si ridusse sensibilmente.

PERCHE’ ABBIAMO BISOGNO DI PROVARE IL BRIVIDO DEL RISCHIO

Sta prendendo sempre più piede il fenomeno dei Sensation Seekers, letteralmente “cercatori di emozioni estreme” il quale, strettamente correlato al concetto di rischio, pone in evidenza la motivazione che sollecita il singolo individuo alla pratica di uno sport estremo. Persone che il rischio lo cercano di continuo, anzi diventa una sorta di dipendenza da adrenalina che li induce ad alzare sempre più l’asticella emozionale.

Infatti con tale espressione si fa riferimento a individui che nutrono un’attrazione particolare per attività rischiose, di qualunque genere, che vengono esercitate principalmente con l’obiettivo di sfidare la morte. Il concetto di sensation seekers si deve a Zuckerman, il quale mediante esperimenti sulle ripercussioni a lungo termine dell’impoverimento di stimoli (deprivazione sensoriale) aveva notato che alcuni individui presentavano la tendenza a sopportare le situazioni monotone a cui venivano sottoposti, meglio di altri che, al contrario, tendevano a diventare subito inquieti, provando sensazioni di forte avversione in assenza di stimoli.

Secondo quanto ipotizzato da Zuckerman, le differenze dipendevano da una particolare disposizione comportamentale. I sensation seekers sono risultati essere persone relativamente giovani, con caratteristiche di personalità impulsive ed a tratti aggressive, molto curiose, anticonformiste e con livelli di ansia relativamente bassi. Attraverso condotte trasgressive, mettono alla prova la loro capacità di controllo degli eventi ed hanno come obiettivo il superamento della noia che caratterizza la loro vita quotidiana (ad esempio, guida automobilistica spericolata, assunzione di droghe e alcool che riducono i freni inibitori). Anche investire in modo azzardato o buttarsi in spese folli (e non solo fare sport estremi), permette di allontanare il fattore noia. Almeno per un po’.

DOVE TI RITROVI?

Probabilmente ti starai domandando qual è il tuo atteggiamento predominante fra avversione e propensione al rischio. Ti sottopongo alcuni quesiti proposti dallo stesso Kahneman. Concentrati solo sull’influenza soggettiva della possibile perdita o sul guadagno che ne deriva e rispondi sinceramente:

1) Considera un’opzione di rischio al 50-50 in cui perdi 10 euro. A partire da quale guadagno l’opzione ti sembra allettante?

2) Cosa pensi dell’eventualità di perdere 500 euro con il lancio di una moneta? Quale guadagno la compenserebbe?

3) E una perdita di 2000 Euro?

Facendo questo esercizio avrai notato che il tuo coefficiente di avversione alla perdita tende ad aumentare, anche se non in misura enorme, a mano a mano che aumenta la posta in gioco. Nessuna scommessa sarebbe allettante se la potenziale perdita fosse rovinosa. In tali casi il coefficiente di avversione alla perdita è molto elevato: vi sono rischi che non accetteresti mai, indipendentemente da quanti milioni potresti vincere se fossi fortunato.

RISCHIO E CONDIZIONAMENTO

Che la nostra propensione sia pro o contro i rischi, ciò che è importante è avere bene in testa gli obiettivi che si vogliono raggiungere, più che farsi guidare dall’emozionalità del momento. Per ottenere risultati migliori è fondamentale essere consapevoli del modo in cui l’avversione alla perdita o la propensione al rischio incidono sulle decisioni a lungo e a breve termine.

Un errore potrebbe essere quello di immaginare il futuro sulla base dell’esperienza del passato. Il passato, purtroppo, contiene informazioni solo sul passato… e il rischio è quello di fare la fine del “Tacchino Induttivista” di Bertrand Russell e Karl Popper.

Russell fa l’esempio del tacchino accudito con estrema cura che ogni giorno riceve acqua e cibo. Così gradualmente si abitua alla confortevole situazione ed aumenta la sua fiducia e sicurezza. La fiducia del tacchino cresce giorno dopo giorno finché si interrompe bruscamente (e tragicamente, almeno dal punto di vista del tacchino) il Giorno del Ringraziamento!

Il povero tacchino era servito a Bertrand Russell per dimostrare i rischi del pensare che il passato abbia tutte le informazioni utili per il futuro. E’ lo stesso rischio che corriamo anche noi quando ci cimentiamo nel fare previsioni (di qualunque tipo). Insomma, siamo macchine fatte per sbagliare… O meglio, siamo macchine perfettamente evolute per sopravvivere nel mondo naturale, ma molto meno adatte al mondo artificiale e complesso del lavoro. Saperlo non ci salva, ma ci aiuta.

TRE CONSIGLI PER PRENDERE DECISIONI RISCHIANDO IL GIUSTO

  1. Non pensare d’avere sempre ragione. L’overconfidence è il motore che spinge a osare, il segreto dei grandi imprenditori e di tutti gli uomini e le donne di successo. Meglio non esagerare con la fiducia sulla propria capacità di giudizio, la storia è piena di esperti che hanno commesso grossolani errori. Il direttore della Metro Goldwin Mayer aveva previsto un fiasco clamoroso per il film “Via col vento”, il direttore artistico della Decca aveva pronosticato il sicuro insuccesso delle “band che suonano con la chitarra elettrica”, Beatles compresi.
  2. Non cercare conferme alle tue scelte. Siamo dotati di potenti sistemi di protezione della nostra autostima: se, una volta compiuta una scelta, incappassimo in informazioni che la indebolissero ci sentiremmo stupidi, e nessuno vuole sentirsi stupido. Al contrario, dobbiamo mettere alla prova le nostre convinzioni. Le certezze non esistono, la ricerca di notizie che confermino le nostre idee porta a trascurare la veridicità e qualità delle notizie ma, soprattutto, porta ad ignorare le notizie che negano quanto pensiamo! Meglio un sano dubbio che una insana certezza.
  3. Non seguire il gregge. Si può seguire la maggioranza solo in poche occasioni, magari in vacanza quando si è indecisi sulla scelta del ristorante. Capita troppo spesso che gli “altri” abbiano scelto imitando a loro volta il comportamento di altri… Resistete alla tentazione di sentirvi al sicuro solo perché “così fan tutti”.

C’ERA TANTA GENTE, NON POTEVA ACCADERMI NULLA. INVECE SONO MORTO! Le strategie da mettere in atto in caso di emergenza e pericolo

New York. Un caso di omicidio come tanti: una giovane donna viene aggredita e uccisa nella strada di casa mentre è di ritorno, a tarda notte, dal lavoro.

La storia sarebbe finita lì se non fosse che il delitto non è stato nè silenzioso nè rapido, bensì tormentato, rumoroso e soprattutto pubblico. L’aggressore ha assalito e colpito la donna 3 volte in mezz’ora, prima di ridurla al silenzio e 38 vicini di casa hanno assistito alla scena dalle finestre delle proprie abitazioni senza far nulla, tanto meno chiamare la polizia.

OMERTA’, PAURA O INDIFFERENZA?

Perché nessuno dei trentotto spettatori si è preoccupato di intervenire per aiutare la ragazza?

Diverse sono state le ipotesi formulate, ma nessuna è sembrata coerente con la situazione. Fino a che due psicologi sociali Latané e Darley hanno trovato la soluzione: “nessuno era intervenuto non, come era stato detto, benchè ci fossero 38 testimoni oculari, ma proprio per questa ragione, perchè c’era tanta gente a guardare”.

Bizzarra conclusione? Non direi proprio…

Due sono le ragioni per cui chi assiste a casi di emergenza difficilmente interviene se ci sono altre persone. La prima è facilmente deducibile: la responsabilità personale di ciascuno si diluisce e mentre ognuno pensa che sia già intervenuto o stia per intervenire qualcun altro, non fa nulla. La seconda è psicologicamente più complessa e fondata sul principio di riprova sociale: l’emergenza spesso non è così evidente, la persona sdraiata a terra ha avuto un malore o è un ubriaco che dorme? I colpi che si sentono sono spari reali o tubi di scappamento? Le urla che arrivano dalla casa accanto sono conseguenti a una aggressione o a un litigio fra coniugi? Cosa sta succedendo?

“In momenti di incertezza la tendenza naturale è guardarsi intorno per capire come si comportano gli altri e dagli altri capire se è un’emergenza o no – spiega lo psicologo Robert Cialdini -. Quello che però si dimentica è che anche tutti gli altri che osservano l’evento sono in cerca della stessa riprova sociale. E siccome in pubblico a tutti piace apparire tranquilli ci limiteremo a brevi occhiate con la conseguenza che ognuno vedrà che nessuno degli altri si scompone e non interpreterà l’episodio come un caso di emergenza”.

L’idea quindi di essere al sicuro nella folla è del tutto errata: la probabilità di ricevere un soccorso tempestivo è migliore quando è presente un unico spettatore. Ma…

PERCHE’ E’ IMPORTANTE AVERE PAURA?

Prima di proseguire oltre e capire quali comportamenti è meglio adottare per mettersi al sicuro in situazioni come questa, non possiamo non soffermarci su un’emozione tanto antipatica quanto necessaria: la paura.

Quella che si manifesta in situazioni di emergenza e di incertezza.

Quella che ha provato la povera vittima e quella che hanno rifiutato di provare i 38 spettatori, preferendo credere che fosse tutt’altro che un atto di violenza quello che si stava consumando nel giardino di casa, dove tutti i giorni i loro figli, famigliari e amici passano per andare a scuola, al lavoro o anche solo per portare a spasso il cane.

Alle origini, il ruolo della paura era più importante di quanto lo è oggi: stretti nelle grotte, nel buio della notte e con il lieve lucore del fuoco, il pericolo era in agguato in ogni angolo e in caso di bisogno il corpo del primitivo doveva reagire prima della sua mente. Era questione di vita o di morte, di essere azzannati da un predatore sbucato dal nulla o di sfuggirgli, oppure anche semplicemente capire se il tuono di un temporale non portava niente di buono e fosse quindi meglio mettersi al riparo o meno.

Però per conoscere meglio il ruolo che ha questa emozione così poco addomesticabile, dobbiamo considerarla dalla prospettiva contraria: cosa accadrebbe se non avessimo paura.

NON AVERE PAURA, MI RENDE PIU’ FORTE?

Aveva 10 anni, Mary, quando si ammalò: alcune parti del suo corpo, compresa l’amigdala, si calcificarono prima di distruggersi. Il suo comportamento cambiò drasticamente, come quella sera che si ritrovò a camminare in una strada deserta che costeggiava un parco immerso nel buio.

All’improvviso l’attenzione della bambina venne attirata da un uomo, seduto su una panchina, con addosso abiti sporchi e atteggiamenti poco rassicuranti. Mary gli si avvicinò e in un attimo si ritrovò con un coltello puntato alla gola e la minaccia di venir ammazzata. Non mostrò timore, anzi rispose all’aggressore: “Sappi che se stai per uccidermi, dovrai vedertela prima con gli angeli del Signore”. La reazione fu così sconcertante che l’uomo lasciò andare la bambina.

A questo punto l’equipe del neuropsicologo Feinstein, da cui la bambina era in cura, decise di approfittare di Halloween, per portare Mary al Waverly Hills Santorium, nel Kentucky, un vecchio ospedale abbandonato. La struttura si trasforma ogni anno in una casa del terrore progettata con uno spaventoso realismo, e con una cura dei dettagli senza paragoni. Mentre il gruppo di scienziati arrancava nel panico, Mary si lanciava nei corridoi bui del sanatorio, incurante di ragni, serpenti e di tutte quelle cose che ai bimbi procurano incubi e terrore.

La malattia genetica di cui è affetta Mary la priva della capacità di avere paura. Eppure provare paura è vitale. Non provassimo quella fastidiosa e talvolta terrorizzante sensazione, non saremmo sopravvissuti nel corso dell’evoluzione. La paura è la reazione emotiva che si prova davanti a un pericolo, un attacco o una minaccia. Responsabile delle reazioni legate alla paura, alla gestione della rabbia e al riconoscimento dei pericoli è l’amigdala, una piccola parte del cervello a forma di mandorla (a cui deve il nome), situata sotto la corteccia del lobo temporale.

La paura è una emozione e come ogni emozione ha la funzione di valutare costantemente quello che ci accade intorno, permettendoci di reagire nel modo più opportuno; in qualunque situazione di confronto, il sistema emotivo calibra il nostro atteggiamento in rapporto al flusso di dati in arrivo e insieme regola il corpo preparandoci all’azione.

LA CONVINZIONE ERRATA DI ESSERE AL SICURO NELLA FOLLA

Ora che sappiamo che la paura può davvero salvarci la vita, riguardiamo il tragico fatto di cronaca avvenuto a New York, questa volta dalla parte dello spettatore.

L’assunto a cui sono arrivati i ricercatori è che l’idea di essere al sicuro nella folla è del tutto errata: la probabilità di ricevere un soccorso tempestivo sono migliori quando è presente un unico spettatore.

Per giungere a questa conclusione Darley e Latané hanno inscenato casi di emergenza sotto gli occhi, ignari, di spettatori isolati o in gruppo. In un caso uno studente fingeva una crisi epilettica: dei passanti isolati, l’85% interveniva a dargli soccorso, contro il 31 per cento se erano presenti cinque persone.

Come scritto in apertura, è difficile attribuire all’apatia o all’indifferenza quel comportamento: la spiegazione va cercata altrove.

In un altro esperimento veniva fatto filtrare del fumo da sotto una porta: dei passanti isolati, il 75% dava l’allarme, contro il 38% se i testimoni erano tre, il 10% se nel gruppo di tre c’erano due complici del ricercatore che passavano facendo finta di niente.

La situazione cambia quando invece i presenti non sanno con certezza cosa stia succedendo. In questo caso la vittima ha più probabilità di ricevere aiuti e soccorsi anche da un gruppo.

COME AGIRE IN CASO DI NECESSITA’

Conoscere come reagisce un gruppo di persone, può salvarci la vita. Se la giovane vittima di New York avesse saputo che i coinquilini non sarebbero intervenuti non per crudeltà, ma per incertezza (non sapendo se fosse davvero il caso di intervenire e a chi toccasse), le avrebbe permesso di mettere in atto azioni ben diverse.

Immagina di essere andato a fare una corsetta a sera tarda, per approfittare del fresco, ad un tratto senti un dolore che si irradia al braccio sinistro e al petto. Ti siedi su una panchina per darti il tempo di riprendere fiato, mentre gruppetti di persone ti passano davanti senza vederti. Senti che qualcosa non va, pensi a un infarto o a qualche disturbo poco simpatico. Le persone continuano a passeggiare incuranti e i pochi che possono aver notato qualcosa di strano in te, osservano gli altri in cerca di una riprova sociale, ma vedendo che nessuno fa nulla, proseguono nella loro passeggiata certi che tutto vada bene.

Cosa è utile fare per attirare l’attenzione dei passanti e ricevere soccorso?

  1. Non perdere tempo. Se il problema di salute è grave, non si può correre il rischio di perdere conoscenza prima di chiedere aiuto.
  2. Non urlare o gridare. Possono, questi atti, richiamare l’attenzione ma non sono sufficienti a far capire agli astanti che si tratti di una vera emergenza. Potrebbe essere il gesto di un uomo sudato e un po’ folle in cerca di attenzione…
  3. Dì con chiarezza “aiuto” e il tipo di bisogno di aiuto di cui hai bisogno. “Aiuto, ho bisogno di un medico”. La parola “aiuto” da sola, non basta. Occorre specificare il tipo di aiuto di cui si necessita o non verrà preso in considerazione se gli avventori sono intenti a fare altro o se avessero paura.
  4. Individua una persona fra la folla e dagli un ordine: “Lei, signore, con la giacca rossa, chiami un’ambulanza”. In questo modo, metterai quella persona nel ruolo di “soccorritore”, e lui saprà che c’è una emergenza e che tocca a lui fare qualcosa. Non ad altri, proprio a lui. Tutti gli esperimenti condotti indicano che il risultato di una richiesta formulata in questo modo attiverà un’assistenza efficace.

La strategia migliore è quella di ridurre le incertezze degli spettatori, formulando una richiesta precisa, rivolta a una singola persona individuata nel gruppo. Insomma, occorre assegnare il compito di attivare i soccorsi a una persona specifica, altrimenti il pensiero di gruppo sarà quello di credere che altri debbano mettersi in moto, o stiano per farlo o lo abbiano già fatto. Mentre tu agonizzante, potresti perdere minuti preziosi.

Agire in questo modo, fa sì che l’aiuto si faccia contagioso. Vedendo che una persona si attiva per chiamare l’ambulanza, tutte le altre si fermeranno per dare il loro aiuto. Così facendo non solo avrete risolto una situazione che si poteva fare pericolosa, ma avrete fatto in modo di far lavorare a vostro vantaggio il principio della riprova sociale.

FRAGILI E AGGRESSIVI. ECCO CHI SONO GLI ADOLESCENTI IN BRANCO. Come riconoscerli per difenderci e aiutarli

“Doveva essere una serata normale, poi i ragazzi hanno iniziato a bere alcolici e fumare marijuana, quando abbiamo rifiutato di fare altrettanto, ci hanno picchiato”.

“Quel clochard lo abbiamo colpito, per noia e per gioco, con spranghe e martelli. E poi siamo andati via”.

“C’è chi dice siano sei, chi dieci. Sono ferocissimi. Tra loro anche alcune ragazze. Compiono furti, dettano legge, e aggrediscono chiunque trovino sulla loro strada. Senza motivo hanno massacrato di botte un ventenne mentre camminava in centro per i fatti suoi”.

Ordinari episodi di violenza collettiva: il volto spaventoso e folle del branco. Un intreccio di persone, per lo più adolescenti fra i 7 e i 14 anni, che hanno forte lo scopo di sentirsi onnipotenti, cancellare la debolezza individuale, la confusione del futuro e l’angoscia di sentirsi nullità.

Il branco è proprio questo, un agglomerato di energia e forza incontrollabile che devasta e sfida senza un minimo di paura. E in cui è forte il bisogno di emulare ciò che fanno gli altri e dove la responsabilità delle azioni brutali si diluisce fra i membri portandoli ad autogiustificarsi.

IL CONTESTO

È piuttosto facile pensare che la microcriminalità trovi terreno fertile nei contesti degradati, in cui sussistono condizioni critiche a livello economico e familiare. In realtà una percentuale piuttosto alta di fenomeni di criminalità minorile afferisce a contesti in cui l’estrazione sociale è medio-alta. Si tratta spesso di adolescenti incensurati, con alle spalle famiglie benestanti, che vivono annoiati nel benessere e che scelgono il gruppo per innalzare ulteriormente il proprio status.

COME CAMBIA IL COMPORTAMENTO NEL BRANCO

Quando gli individui si muovono in gruppo l’intelligenza media è pari a quella del meno intelligente, non a caso reagiscono e agiscono principalmente basandosi sulla forza fisica e non sull’abilità intellettiva.

Molte sono le ricerche fatte allo scopo di analizzare la psicologia del branco, fra questi l’esperimento carcerario condotto da Philip Zimbardo, che ha preso alcuni volontari e li ha trasformati in guardie o carcerati, giungendo a spingere i primi a sottoporre a torture i secondi alla luce della loro immedesimazione nei ruoli loro assegnati; i primi sono diventati violenti ed aggressivi, i secondi remissivi e impotenti.

I partecipanti erano stati selezionati perché ritenuti equilibrati, maturi e privi di un passato criminale. Nonostante questa selezione accurata, Zimbardo fu costretto a interrompere l’esperimento dopo solo sei giorni perché le guardie erano diventate violente, sadiche e vessatorie nei confronti dei prigionieri. Questi, umiliati, dimostrarono sintomi di apatia e disgregazione individuale e collettiva.

Il risultato dell’esperimento fu definito “effetto Lucifero” perché ha dimostrato come persone essenzialmente buone, possano trasformarsi in mostri capaci di atti disumani. Questo suggerisce che la malvagità non deriva solo da chi siamo, ma viene anche determinata dalla situazione specifica in cui ci troviamo.

Una delle condizioni che si verifica è la perdita dell’identità individuale a vantaggio di quella di gruppo: ogni volta che nella mente di una persona l’appartenenza a un branco è predominante, non agisce più come singolo con una propria consapevolezza e diventa incapace di riflettere sulle proprie azioni. Il gruppo dà la sensazione di anonimato e riduce il senso di responsabilità.

IL BRANCO HA BISOGNO DI UN CAPO

L’impatto che il ruolo di direttore del carcere ricoperto dallo stesso Zimbardo, ha avuto sull’esperimento, non è affatto trascurabile. La sua autorità ha aiutato a legittimare il comportamento vessatorio delle guardie. L’autorità, se visto come fattore legittimante, può far emergere il lato peggiore nelle persone come dimostrò il professore di Yale e Harvard Stanley Milgram, nei suoi esperimenti sull’obbedienza, nel quale un’autorità, nel caso specifico uno scienziato, ordinava di dare delle scosse elettriche a un’altra persona fino a un voltaggio potenzialmente letale. Più del 60% dei partecipanti, anche se dimostrarono sintomi di tensione e protestarono verbalmente, diedero la scossa più forte.

La caratteristica fondamentale del branco è la necessità di avere un capo. Il branco “è’ un gregge che non può fare a meno di un padrone – sosteneva l’antropologo Gustave Le Bon -. Rari però sono i capi dotati di forti convinzioni, la maggior parte mira all’interesse personale e cerca il consenso lusingando i bassi istinti”. Dal canto loro, ogni componente del branco cerca di venir legittimato per sentirsi parte di qualcosa di più grande, un’identità che da solo non sa riconoscersi o che non gli viene riconosciuta dall’esterno.

LE RESPONSABILITA’ DEL BRANCO

Fino a qualche anno fa, grazie agli studi di Milgram e Zimbardo, si pensava che una volta inserito in un ruolo, in una determinata situazione, in un dato gruppo di appartenenza, un individuo tendesse a seguire passivamente gli ordini impartiti o le regole del gruppo, perdendo ogni consapevolezza di sé.

Più recentemente lo stesso esperimento carcerario, è stato riproposto e questa volta i ricercatori sono arrivati alla conclusione che chi ubbidisce a un ordine odioso non è una marionetta inconsapevole, bensì un esecutore attivo e partecipe di un gesto che, in quel momento, considera perfettamente appropriato. “Le brave persone che prendono parte a azioni orribili – spiega Alex Haslam, autore dello studio – non lo fanno perché sono diventate d’un tratto passive e prive di raziocinio, ma perché sono giunte a credere, solitamente influenzate in questo da chi detiene il potere, che quell’atto è giusto”.

Esiste insomma un fattore “entusiasmo” di cui Milgram e Zimbardo non sembravano tenere conto. “La tirannia non si fonda sull’ignoranza e sulla debolezza dei suoi sostenitori, ma sulla loro convinzione di agire per una grande causa”.

TEORIE E MOTIVAZIONI

Esistono varie teorie che tentano di identificare le cause dello sviluppo del fenomeno. C’è chi sostiene che parte della colpa sia imputabile alle serie tv incentrate su spaccati di vita disagiati, disastrati e degradati. In alcuni casi la tendenza ad adottare condotte anti-sociali è associata alla psiche dei soggetti, in frustrazioni non controllate che portano a scaricare l’aggressività su persone più deboli. E chi ritiene che la responsabilità sia da ricercare in contesti familiari problematici, nell’ambito dei quali sussistono divorzi, separazioni difficili e talvolta anche perdite.
Al contrario anche una famiglia troppo protettiva e accondiscendente può far nascere nel ragazzo il forte desiderio di ribellarsi. Insomma non esiste un’unica motivazione e ogni singola teoria può risultare più o meno accreditata a seconda dei contesti e delle situazioni.

TRE RAGIONI CHE SPINGONO UN ADOLESCENTE A FAR PARTE DI UN BRANCO

I ragazzi sono spinti in gruppo da un forte desiderio di anticonformismo, sulla base del quale tendono ad andare contro tutto ciò che impone delle regole da seguire. L’opposto di ciò che hanno il coraggio di fare individualmente. La criticità è spesso insita in un’educazione carente, povera di regole da rispettare, o addirittura in una totale assenza di orientamento socio-educativo da parte dei genitori.

Nello specifico nel gruppo gli adolescenti cercano:

  • acquisire un’identità: in questa fase il ragazzo inizia a sviluppare la personalità, se non ha esempi o guide credibili, decide di seguire il capo branco, che è visto dal gruppo dei pari come uno che è “rispettato”
  • appartenere ad un gruppo che spaventa e che “conta”: incutere timore significa essere rispettati, sono le leggi della strada; non avendo ancora acquisito quella sicurezza interiore che permette di sviluppare la fiducia in se stessi, questi giovani si sentono protetti dal branco
  • avere potere: esercitare una sorta di dominio nel gruppo dei pari, dà loro una sorta di onnipotenza e invincibilità fittizia, che nell’immediato però, li fa sentire appagati

COSA POSSIAMO FARE NOI ADULTI?

Più di quanto crediamo:

A) EDUCARE AL SENSO DI RESPONSABILITA’

Analfabeti emotivi, trovano in azioni scellerate adrenalina pura e non essendo stati educati al senso di responsabilità, al rispetto per gli altri e per le autorità, diventano delle schegge impazzite.

Noi adulti abbiamo il dovere di dare l’esempio e dimostrare loro che non è solo importante diventare ricchi, potenti e famosi. Importante è appassionarsi a qualche cosa (sport, musica, arte, studio) e impegnarsi al massimo. Non bisogna intraprendere un’attività solamente perché può portare denaro, potere e fama; il piacere va trovato nella pratica stessa.

Dobbiamo trasmettere loro che non si è più furbi se si ottengono risultati imbrogliando o prevaricando. I risultati devono essere raggiunti attraverso la passione, l’impegno, la determinazione e la competenza.

L’individualismo patologico e la competizione sfrenata, dove vale tutto basta vincere a qualsiasi prezzo, non vanno d’accordo con la collaborazione. Se la nostra specie è sopravvissuta fino ad oggi, non è dovuto al fatto che l’essere umano fosse più forte degli altri animali, ma perché ha reso forte il gruppo.

 B) PROMUOVERE LA PRATICA DI SPORT DI GRUPPO

Gli sport di lotta, fra cui anche il rugby, soprattutto in età pre-adolescenziale dovrebbero essere discipline praticate obbligatoriamente nelle scuole primarie, soprattutto per i valori che trasmettono. Disciplina, rispetto per l’avversario, spirito di squadra, cooperazione, collaborazione, faticare e sudare per un obiettivo, resistere alle cadute e alle sconfitte, imparare a gestire la paura utilizzandola come una risorsa, controllare la rabbia, assumersi la piena responsabilità delle azioni e dei comportamenti “dentro e fuori” dalla palestra.

Ma soprattutto, questi sport insegnano che la fatica fatta in allenamento, non è finalizzata all’acquisizione di denaro né alla popolarità, ma alla pura soddisfazione personale, impagabile e fondamentale per aumentare l’autostima nei ragazzi e la fiducia nei compagni di squadra.

 C) DARE IL BUON ESEMPIO

Sì alla potenza, no alla prepotenza. Un antidoto alla violenza è l’esempio dei genitori: noi adulti dobbiamo testimoniare nella vita di tutti i giorni come si reagisce e come si comunica in modo potente, efficace, ma non prepotente. Occorre insegnare ai ragazzi che gli abusi quotidiani possono essere gestiti in modo maturo: può capitare in macchina, con un parcheggio soffiato all’ultimo, un sorpasso azzardato… Sappiamo noi per primi reagire in modo misurato?