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PERCHE’ IL TEMPO SCORRE PER OGNUNO DI NOI A UNA VELOCITA’ DIVERSA?

Vuole la tradizione che sia di buon auspicio gettar via, l’ultimo dell’anno, qualcosa di vecchio per lasciar spazio al nuovo. Così come indossare biancheria intima rossa e baciarsi sotto il vischio… Delle tre, solitamente opto per la prima, salutando l’agenda dell’anno trascorso per sostituirla con quella dell’anno in arrivo. Inevitabilmente questo gesto mi porta a riflettere sul tempo, sui mesi che scorrono a una velocità che non ci è dato controllare e che sembra sempre diversa.

In vacanza o immersi nel flusso delle cose che ci piace fare, il tempo pare prendere il volo, ma poi quando ripercorriamo con la mente i ricordi di quei momenti, la durata di quelle giornate pare lunghissima, densa di emozioni. Gli scienziati hanno battezzato questo bizzarro fenomeno con il nome di “paradosso della vacanza”, per indicare la ragione per cui il tempo sembra molto più lungo quando è richiamato alla memoria, ma rapidissimo quando lo si vive.

Questa, ho scoperto non essere l’unica bizzarria legata alla percezione del tempo. L’età, il movimento e perfino la temperatura corporea possono influenzare la velocità con cui ci paiono scorrere minuti e ore. Inoltre, c’è un forte legame tra il nostro modo di misurare il tempo e quello di percepire lo spazio. La scienza, non a caso, è riuscita a dimostrare che l’esperienza del tempo è creata dalla mente. I fisici dicono che il tempo non trascorre, il tempo semplicemente è. Eppure, nessuno dubita che il tempo passi. Inevitabile che sia così, visto che il cervello misura il tempo. Ma, a volte, sbaglia.

IL CERVELLO MISURA IL TEMPO E A VOLTE SBAGLIA

A far sbagliare il nostro cervello sono in primis le emozioni. Quando sentiamo la nostra vita a rischio, se ci fate caso o se mai vi siete trovati in questa rovinosa situazione, il tempo pare rallentare e ogni secondo sembra durare un’eternità.

David Eagleman, neuroscienziato del Baylor college of medicine di Houston (Usa), ha dimostrato con uno spettacolare esperimento che quando si ha paura il cervello non pensa più velocemente. Eagleman ha chiesto a dei volontari di lasciarsi cadere da un traliccio alto 45 metri, avvolti da un’imbracatura che li avrebbe trattenuti prima di toccare terra. Il salto avveniva all’indietro in modo che il tuffo fosse più impressionante. Durante la caduta i volontari dovevano osservare un grosso cronometro che faceva scorrere i numeri in modo velocissimo. «I numeri si succedevano al ritmo di 20 volte al secondo, appena un po’ più rapidamente di ciò che l’uomo riesce a cogliere» ha spiegato Eagleman. «Ma nonostante le mie “vittime” dichiarassero tutte che la caduta era sembrata interminabile (quando fu loro chiesto di quantificarla la valutarono più lunga in media del 35%), nessuno riuscì a leggere le cifre sul display».

L’esperimento ha così dimostrato che la mente spaventata non lavora più in fretta dilatando il tempo: è solo il ricordo dell’evento ad apparirci più lungo.

A causare questa distorsione è la memoria. Se si mostra a dei volontari il video di 30 secondi di una rapina, a distanza di qualche giorno gli stessi volontari diranno che quel filmato è durato più di 2 minuti. Per dirla in modo semplice: un evento che ci colpisce genera più ricordi e per questo ripercorrendolo con la mente ci sembra più lungo.

TEMPO E PIACERE

Ma non finisce qui. Ad alterare la nostra percezione del tempo è anche la sensazione di non piacere agli altri, come dimostrato dalla psicologa statunitense Jean Twenge.

Twenge, che insegna all’Università di San Diego, ha chiamato alcuni volontari a svolgere un test per una ricerca. L’esperimento, efficace e sottilmente diabolico secondo me, richiedeva che una volta radunato un gruppetto di persone, venisse chiesto loro di fare conoscenza, raccontando episodi simpatici. Successivamente i volontari sono stati informati che, poiché il lavoro si sarebbe svolto a coppie, avrebbero dovuto segnare su un foglio i nomi di 2 persone con le quali sarebbe loro piaciuto lavorare.

I volontari sono stati poi chiamati uno a uno. A metà di loro è stato raccontato che erano stati scelti da tutti e che non si era riusciti a formare delle coppie; a metà degli altri è stato detto che nessuno li aveva scelti, che questo non era mai successo e quindi era meglio che lavorassero da soli. Poi a tutti è stato chiesto di compilare individualmente un questionario.

Il risultato: le persone a cui era stato riferito che piacevano a tutti quantificarono la durata del test in 42,5 secondi (in media); chi era stato rifiutato in 63,6 secondi, quasi un terzo del tempo in più.

Le emozioni hanno una grande influenza sulla percezione temporale. In un altro studio ad alcuni volontari sono state mostrate immagini di volti che esprimevano stati d’animo differenti ed è poi stato chiesto loro di stimare quanto tempo le immagini erano rimaste sullo schermo. Si è visto che rabbia e paura inducono a sovrastimare il tempo, mentre felicità e vergogna a sottostimarlo.

Leggendo qua e là, ho poi scoperto che anche la febbre può condizionare la percezione del tempo, riducendolo. Nel secolo scorso, lo psicologo Hudson Hoagland chiese alla moglie influenzata quando secondo lei fosse passato un minuto, e si accorse così che più si alzava la temperatura corporea, più la donna sottostimava il trascorrere del tempo (oltre i 39 °C, un minuto per lei durava appena 34 secondi).

GLI OROLOGI CHE ABBIAMO NELLA TESTA

«La stima del tempo dipende in gran parte dalle strutture sensoriali del cervello e perfino da quelle motorie» spiega Thierry Pozzo, neuroscienziato dell’Università di Digione. Del resto, tempo e spazio sono legati: se si benda una persona e le si chiede di rievocare una giornata di 4 anni fa il corpo si inclina leggermente indietro, se le si chiede di immaginare una giornata tra 4 anni il corpo si sposta leggermente in avanti.

Tempo e spazio sono così intimamente connessi che spesso il cervello li mescola. Esistono persone capaci di vedere il tempo dispiegarsi nello spazio. Lo vedono in forma tridimensionale: come una fascia che avvolge il corpo e poi si dipana. L’anno è di solito visualizzato come un anello che gira in senso antiorario. Le settimane hanno i modi di visualizzazione più vari: ferri di cavallo, semicerchi, curve, tessere del domino allineate.

Esiste una sola comunità umana, quella degli Amondawa dell’Amazzonia, che non conosce la parola tempo: nella loro cultura non esiste nulla di simile ai mesi o agli anni, non hanno né orologi né un calendario condiviso.

Il cervello, in realtà è in grado di stimare il tempo con una certa accuratezza. Ma finora non è stato trovato un vero “orologio” mentale; o meglio: forse ce n’è più di uno. È stato infatti scoperto che diverse aree cerebrali sono implicate nella percezione del tempo.
Fondamentale è il cervelletto, un’area che si trova nella zona della nuca e costituisce il 10% in volume del cervello ma ne contiene metà delle cellule. Serve per coordinare il movimento elaborando i dati provenienti dal resto del sistema nervoso. È il cervelletto che ci permette di non schiacciarci le dita nella portiere quando saliamo in macchina perché valuta quante frazioni di secondo lo sportello impiegherà a chiudersi.

Un’altra area che misura il tempo si trova nel lobo frontale destro, che ha anche un ruolo importante nella memoria a breve termine. In questa zona si valutano durate dell’ordine di secondi.

Ma quando bisogna andare oltre, su tempi di molti minuti, ore o giorni entra in gioco un’altra zona cerebrale, i gangli basali: 2 gruppi di neuroni che attraverso la dopamina controllano i muscoli, ma sono anche fondamentali nella valutazione della durata di un evento. Quindi, quando calcoliamo il tempo, usiamo una combinazione delle 3 zone cerebrali e del sistema dopaminico.

«Queste aree sono tutte implicate nella misurazione degli spazi temporali» dice Giacomo Koch, neurologo alla fondazione S. Lucia di Roma «ma sul modo in cui la nostra mente riesce a percepire il tempo ci sono diverse teorie: se sia implicata di più la memoria, l’attenzione, una serie di orologi cerebrali o se sia l’attività cerebrale quotidiana a darci la scansione del tempo è ancora oggetto di discussione».

A pensarla in modo differente è la neuroscienziata francese Virginie van Wassenhove. Secondo lei non esistono orologi mentali: ogni zona del cervello ha la capacità di calcolare il tempo. Ma lo fa solo quando glielo chiediamo. A darci l’idea che il tempo passi sarebbero le onde alfa le cui oscillazioni durano 30 millisecondi e che quindi riprodurrebbero nel nostro cervello una sorta di incessante tic tac.

Perso in tutte queste riflessioni e letture, intanto, non mi sono accorto che sono trascorse tre ore. Insomma, il tempo vola quando ti diverti… forse non è scientifico ma è pur sempre la mia percezione.

VIAGGIO NEL CERVELLO FRA MITI, ILLUSIONI E IL DESIDERIO DI DIVENTARE IMMORTALI

Qualche notte fa, incapace di prendere sonno, facendo zapping da un canale all’altro, sono incappato in un film culto Frankenstein Junior di Mel Brooks, in cui il giovane medico Frederick Frankenstein scopre un fluido magnetico per mezzo del quale, innestando un nuovo cervello in un uomo morto, lo riporta in vita.

Dibattito infinito quello sul trapianto di cervello, oggi molto meno chimera grazie agli sviluppi e le scoperte in ambito medico, della genetica e delle neuroscienze, ma ancora di difficile realizzazione. Almeno su un paziente vivo.

Goloso di saperne di più, ho trascorso parte delle successive notti a cercare indizi per capire se il trapianto di testa, è una speculazione o il prossimo futuro. E ho scoperto che tenere in vita le cellule del cervello è tutt’altro che semplice.

In un articolo pubblicato sul sito di Medicina tedesco Ärzte Zeitung (poi rimosso, ma di cui rimane una copia cache), si legge che un team di ricercatori dell’Università di Yale diretto da Nenad Sestan sarebbe riuscito a ripristinare parzialmente le funzioni cerebrali di 32 cervelli di maiale, collegati al sistema BrainEx, in grado di fornire la giusta circolazione sanguigna e temperatura corporea agli organi.

«Dopo sei ore di perfusione, i ricercatori hanno osservato una riduzione delle cellule morte e hanno trovato evidenza di alcune funzioni cellulari, come l’attività della sinapsi. Tuttavia, non c’erano segni di funzioni cerebrali come la coscienza e la percezione».

Scopro altresì che quello di Sestan non è il primo studio sull’argomento e scartabellando qui e là, ho dovuto mettere molto impegno nel tenere a freno la fantasia e rimanere sul concreto.

Infatti pur sapendo che il lavoro di Sestan aveva risuscitato alcunchè e nemmeno ripristinato coscienza e percezione, mi piaceva credere di poter trovare di lì a poco, qualche altro studio che dicesse il contrario. Alla fine mi sono dovuto accontentare del fatto che questi esperimenti sono utili nel trattare danni cerebrali e capire qualcosa di più di un organo altamente complesso.

Niente, fra ciò che leggevo, dava risposta alla domanda più importante: è possibile ripristinare completamente la funzione cerebrale?

Ricerche del 2018 pubblicate sulla rivista del MIT, hanno dimostrato che il cervello potrebbe sopravvivere anche 36 ore dopo la separazione dal corpo. La ricerca riguardava anche allora dei cervelli di maiale sottoposti nuovamente a flusso sanguigno, i risultati vennero presentati al National Institutes of Health negli Stati Uniti nel marzo 2018.

Il neuroscienziato della Yale University ha rivelato che una squadra da lui guidata aveva sperimentato tra 100 e 200 cervelli di maiale ottenuti da un macello, ripristinando la circolazione usando un sistema di pompe, riscaldatori e sacchi di sangue artificiale riscaldati a temperatura corporea.

IL TRAPIANTO DI CERVELLO E’ TUTT’ALTRA COSA

Anche in quel caso non vi era alcuna evidenza di un ripristino di coscienza nei cervelli, mentre è stato riscontrato un prolungamento della vita di una parte delle cellule cerebrali. La tecnica ricorda quella utilizzata per conservare gli organi destinati al trapianto; a parte questo non può però essere riscontrata una tecnica in grado di riportare in vita le persone, magari dopo una decapitazione, tanto meno eseguire dei «trapianti di testa», possibili solo ed esclusivamente col decesso del paziente.

Il più recente articolo firmato da Sestan pubblicato su Current Opinion in Neurobiology «Shared and derived features of cellular diversity in the human cerebral cortex» , riguarda l’organizzazione dei neuroni nella corteccia cerebrale umana, quella dove è possibile trovare anche le funzioni che ci rendono coscienti.

Oltre Sestan un altro neuroscienziato ha portato l’attenzione su di sé, proclamando nel 2017, durante una conferenza stampa a Vienna, un’operazione che sarebbe stata effettuata in Cina su due cadaveri, dove la testa di uno e il corpo di un altro, sarebbero stati “assemblati” connettendo colonna vertebrale, nervi e vasi sanguigni, durante un intervento lungo 18 ore.

A ben vedere un intervento su due cadaveri non è un trapianto. Almeno non dal punto di vista tecnico. E dunque non è corretto parlare di trapianto di testa.

Il neurochirurgo in questione è il torinese Sergio Canavero, della Harbin Medical University, in Cina.

UN TRAPIANTO SU UN MORTO CHE UTILITA’ HA?

Così mi sono chiesto: se i pazienti arrivano sul tavolo operatorio già morti, che senso ha un trapianto?

A fornirmi la risposta è Dean Burnett, neuroscienziato e giornalista, sul Guardian, «forse la procedura adottata è stata una buona dimostrazione di come “attaccare” nervi e vasi sanguigni su larga scala, ma con ciò? È solo l’inizio di ciò che serve perché un corpo funzioni. Puoi assemblare due metà di auto diverse e definirlo un successo, se vuoi, ma nel momento in cui giri la chiave e il tutto esplode, la maggior parte delle persone avrebbe qualche difficoltà a sostenere che è stata una brillante idea».

PERCHÉ È COSÌ DIFFICILE TRAPIANTARE UNA TESTA?

Dal punto di vista medico, il trapianto totale di corpo presenta almeno tre grandi, invalicabili criticità: le migliaia di nervi contenuti nei due monconi del midollo spinale, la temperatura del cervello e il problema del rigetto.

Se alcuni organi, come il cuore, sono relativamente facili da trapiantare (perché basta connettere un numero limitato di vasi), altri sono praticamente impossibili da trasferire da un corpo a un altro. Uno di questi è il midollo spinale: perché possa tornare funzionante ci sono milioni di connessioni neurali che andrebbero ripristinate, e finora non è mai stato possibile un trapianto simile.

Sarebbe un’impresa monumentale: nel 2017 è stata trapiantata con estrema pazienza e difficoltà,  una mano. Altri successi in fatto di trapianti, come quello di volto, di pene, di utero, hanno richiesto decenni di tentativi e sono già considerati rivoluzionari.

Canavero dice di aver già eseguito con successo un trapianto di testa su ratti e scimmie, ma anche queste affermazioni sono discutibili: il primate non si è mai risvegliato dall’operazione, ed è stato lasciato attaccato alle macchine che lo tenevano in vita per 20 ore “per ragioni etiche“.

Un altro non trascurabile dettaglio che rende difficile trapiantare una testa, riguarda il fatto che il cervello inizia a degradarsi e morire dopo pochissimi minuti senza ossigenazione, riportando danni permanenti. Anche raffreddandolo il più possibile, lo si potrebbe tenere in vita abbastanza a lungo da avere il tempo di ricucire con pazienza le milioni di connessioni neurali? Probabilmente no, e ogni danno cerebrale annullerebbe l’utilità di un trapianto totale di corpo (almeno prima il cervello funzionava).

Infine, quale sarebbe l’impatto psicologico sul paziente? A differenza dei trapianti di organi interni, quelli di parti visibili come il volto, le mani o il pene presentano altissime probabilità di rifiuto psicologico da parte del paziente, che pure ne sentiva la necessità.

Il successo del primo trapianto di pene è stato in parte offuscato dalle richieste del paziente di rimuovere i nuovi genitali, che sentiva di non riconoscere. Avviene spesso anche con le mani – con i pazienti che si trovano a preferire protesi visibilmente finte ad appendici appartenute a qualcun altro. La sensazione di avere addosso un intero corpo (morto) di uno sconosciuto potrebbe avere effetti devastanti sulla psiche. Che dire poi dei farmaci antirigetto presi per evitare che un corpo appena arrivato rigetti il “vecchio” cervello? Chi sarebbe a quel punto il legittimo proprietario?

Domande legittime che mi riportano a un altro film di qualche anno fa, non meno ricco di irrisolti, da lasciarmi anche allora insonne.

BOGOWIE: L’OPERAZIONE E’ RIUSCITA

Bogowie narra di Religa: il primo medico a effettuare un trapianto di cuore in Polonia nel 1985. Un’operazione, avvenuta diciotto anni dopo quella del pioniere sudafricano Christian Barnaard ma che resta rivoluzionaria visto il luogo, il contesto storico e le precarie condizioni in cui venne effettuata.

Erano in molti, colleghi compresi, a osteggiare il cardiochirurgo, accusato di mettere a repentaglio la vita dei propri pazienti per mettersi in mostra. Dall’altro, milioni di polacchi erano diffidenti nei confronti di un trapianto cardiaco per motivi morali e religiosi visto l’altissimo valore simbolico del cuore visto come sede di anima e sentimenti per molti fedeli cattolici. ‘Mentre invece sappiamo benissimo che si tratta di un muscolo‘ ribadisce Zbigniew Religa.

Bogowie, non a caso, significa ‘Dei’ ed è proprio di questo che Religa e i suoi colleghi chirurghi della clinica di Zabrze, in Slesia, sono stati accusati. Medici che, lungi dall’arrogarsi il diritto di sostituirsi a Dio, ritengono invece di avere il dovere morale e professionale di tentare di salvare uomini e donne.

Pazienti spesso ritenuti casi disperati e, come tali, a loro volta consapevoli di giocarsi il tutto per tutto pronti percio’ ad affidarsi alle mani e ai ferri dei giovani e coraggiosi chirurghi polacchi.

Al pari delle persone che decidono di sottoporsi a trapianto cardiaco nella sua clinica, Religa ha molto da perdere in caso di insuccesso: la vita privata ma anche i preziosi finanziamenti che gli consentono di tenere aperta la clinica, oltre al prestigio professionale. Ma soprattutto Religa rischia di compromettere irrimediabilmente la fiducia in se stesso e nella propria capacità di salvare il prossimo. Non a caso ogni operazione fallita, ogni crisi di rigetto post-operatorio, ogni paziente scomparso lo portano a scivolare nell’alcool e nell’isolamento.

Chissà – rifletto mentre le ultime scene del film sfumano -, forse qualcuno vuole davvero sostituirsi a Dio, ma credo che i più vogliano solo salvare uomini e donne malati. Difficile stimare i confini fra dove finisce l’etica e dove inizia la brama personale. Un tempo era il cuore, oggi è il cervello.

Buona riflessione a tutti.

SE SOLO RICORDASSI DOVE HO LASCIATO LE CHIAVI… MEMORIA AIUTAMI TU!

Se solo ricordassi dove ho messo le chiavi dell’auto… E il ritornello di quella canzone, quel tormentone estivo… l’ho cantato tutta l’estate, possibile che ora non riesco a farmelo tornare alla mente… Già la memoria, capace di farsi necessità proprio quando la perdiamo.

E proprio mentre ero concentrato a ricordare dove avessi lasciato gli occhiali, sì tra le altre cose, perdo anche gli occhiali, non ho potuto fare a meno di documentarmi. Chissà, mi sono detto, che la conoscenza non rafforzi anche la memoria.

VIS à VIS CON LA MEMORIA

I neuroni, per comunicare, si scambiano sostanze chimiche che li inducono a generare specifici impulsi elettrici. Immagina di ripetere questo processo miliardi di volte ed ecco che, pur se in maniera semplificata, avrai ottenuto il trasferimento di un’informazione (visiva, auditiva…) all’interno di un circuito neuronale del cervello umano.

Ma questo, ti starai domandando, che relazione ha con i processi di memorizzazione e ricordo?

Immagina di venir catturato da un profumo, una essenza che non conosci. Questa informazione immediatamente viaggerà dal naso, lungo il nervo olfattivo, fino alla parte del cervello organizzata per analizzare e comprendere i profumi. Nel fare ciò, l’informazione attraverserà un numero enorme di sinapsi creando l’equivalente di un “sentiero” neuronale. Al ripetersi dell’esperienza, l’informazione viaggerà nuovamente lungo lo stesso percorso rinforzandolo, proprio come il passaggio di molte persone in un prato crea un sentiero.

Questo processo è la base fisica del ricordo.

Lo stesso accade quando si cerca di memorizzare il numero del Bancomat o il numero di un cellulare: occorrerà ricomporlo più volte prima di fissarlo nella memoria. A meno che non si usino strategie di memorizzazione che legano il nuovo numero a percorsi già formati… sarebbe facile per esempio ricordare un numero come 191518 collegandolo al concetto “I guerra mondiale” (cominciata nel 1915 e finita nel 1918).

Questo spiega anche il perché è difficile ricordare una canzone o una poesia partendo dalla terza o quarta strofa e non dall’inizio. Poiché l’intera memorizzazione fa parte di un percorso: solo imboccandolo dall’inizio si riesce a ripercorrerlo senza difficoltà.

H. M.

Molto di ciò che sappiamo sulla memoria si deve a un paziente identificato con la sigla H. M., che a causa di una grave epilessia subì la rimozione di alcune parti del cervello. Migliorò, ma perse completamente la capacità di fissare nuovi ricordi perché le aree rimosse (una parte dei lobi temporali che comprendeva l’ippocampo) erano quelle coinvolte nella formazione della memoria. H.M. manteneva i ricordi di quando era piccolo, perché le regioni temporali sono necessarie alle memorizzazione, ma poi i ricordi sono immagazzinati in altre aree. In generale, la memoria dichiarativa (per esempio ricordare un numero) risiede nelle aree della corteccia, mentre quella procedurale (per esempio come si va in bicicletta) dipende da altre regioni, come i gangli della base.

DOVE FINISCONO I RICORDI?

La scienza ancora non ha risposto per intero al quesito. Sappiamo però che i ricordi non vengono immagazzinati nel cervello come fotografie, ma vengono scomposti nei loro costituenti (colore, sapore, movimento, profondità, intensità, suono ecc).

Il mistero è come facciano i frammenti dispersi nelle varie aree del cervello a ricomporsi, all’occorrenza, in qualche millesimo di secondo, facendo riemergere il ricordo completo.

COME ORGANIZZIAMO I RICORDI NELLA NOSTRA MENTE

Il cervello umano dispone di una sorta di “orologio” che tiene il tempo degli eventi che viviamo nel corso della giornata, ne registra l’orario e mantiene traccia dell’ordine con cui sono accaduti. È una rete di neuroni lo strumento che ci consente di disporre i nostri ricordi su una scala temporale ed è localizzata nell’emisfero destro, vicino all’area che regola la nostra esperienza dello spazio. A scoprirla un team di ricercatori norvegesi del Kavli Institute for Systems Neuroscience, diretto da Edvard Moser che nel 2014 ha vinto il Nobel per la medicina, insieme alla moglie May-Britt e a John O’Keefe, per la scoperta del ‘gps’ del cervello. La ricerca è reperibile anche sulla rivista Nature.

I nostri studi mostrano come la mente riesca ad assegnare un senso temporale a un evento nel momento in cui lo viviamo – spiega Albert Tsao, uno degli autori della ricerca. – Questa rete di neuroni non codifica il tempo in modo esplicito: quello che noi misuriamo è piuttosto un tempo soggettivo che deriva dal flusso continuo dell’esperienza“.

A ispirare la ricerca è stato proprio lo studio precedente condotto da Moser e premiato con il Nobel. Tsao si propose di scoprire ciò che accadeva nella misteriosa corteccia entorinale laterale, che è proprio accanto all’area in cui i Moser avevano scoperto la griglia di cellule con cui il nostro cervello costruisce la mappa dello spazio che ci circonda.

Sulle prime gli scienziati non riuscivano a raccapezzarsi. “Il segnale cambiava continuamente, non sembrava che l’attività di queste cellule seguisse uno schema“, ricorda Moser. Tre anni or sono hanno iniziato a sospettare che il segnale mutava sì di continuo, ma perché seguiva lo scorrere del tempo. “All’improvviso i dati che avevamo raccolto iniziavano ad avere senso“.

In laboratorio sono stati condotti due esperimenti per testare l’ipotesi che la rete di neuroni individuata servisse a riorganizzare temporalmente ricordi ed eventi. I ricercatori hanno monitorato l’attività cerebrale dei topi, impegnati in alcuni compiti, e hanno scoperto che con il segnale “del tempo” registrato potevano tracciare gli eventi che si erano succeduti nelle due ore di esperimento. “Lo studio mostra che cambiando l’attività in cui siamo impegnati – spiega Moser – cambiamo anche il corso del segnale-tempo e il modo in cui percepiamo il tempo“.

SE I RICORDI SONO BRUTTI?

Il neuroscienziato della Boston University Steve Ramirez e Briana Chen della Columbia University, hanno scoperto che nell’ippocampo – una piccola porzione cerebrale che immagazzina le informazioni sensoriali ed emotive di cui sono fatti i ricordi – si nasconde una sorta di’interruttore della memoria. Un interruttore flessibile, che cambia funzione a seconda di dove si trova.

Dopo avere identificato le cellule che partecipano alla costruzione dei ricordi, i test hanno dimostrato che, stimolando artificialmente le cellule della memoria situate nella parte superiore dell’ippocampo, il trauma collegato ai cattivi ricordi si attenua; al contrario, stimolando le cellule della parte inferiore la paura che si prova richiamando alla mente memorie negative aumenta, a indicare che quest’area potrebbe essere iperattiva quando un ricordo diventa talmente angosciante da scatenare una malattia. Almeno in teoria, dunque, spegnere questa iperattività potrebbe aiutare a trattare patologie come lo stress post traumatico o i disturbi d’ansia.

Il campo della manipolazione della memoria è ancora giovane“, spiega Ramirez. “Sembra fantascientifico ma questo lavoro è un’anteprima di ciò che verrà in termini di capacità di potenziare artificialmente i ricordi di una persona o di cancellarli“.

Attenzione però: l’esperimento è avvenuto sui topi, animali con un cervello molto diverso dal nostro. Quanto eseguito sulle cavie, dunque, è ancora “molto lontano dall’essere in grado di farlo negli esseri umani – puntualizza Chen – Ma la dimostrazione del concetto c’è” e, “come a Steve piace dire: mai dire mai, niente è impossibile“.

Mentre termino queste allettanti letture, ritrovo le chiavi in frigo e il contenitore del latte in lavanderia. La mia memoria ha grandi spazi di miglioramento!

Continua…

BELLO DA STAR MALE: LA SINDROME DI STENDHAL

Tutti ne hanno sentito parlare. E probabilmente anche tu, se sei anche solo uno sporadico frequentatore di musei e gallerie, conosci qualcuno che afferma di esserne stato colpito. Sto parlando della Sindrome di Stendhal, fenomeno che aggredisce inaspettatamente la persona che si trova ad osservare un’opera d’arte ai suoi occhi di incommensurabile bellezza. Vertigini, tachicardia, confusione, crisi di pianto, ansia… Insomma, la Sindrome di Stendhal, per quanto sgradevole, sembra essere la manifestazione dell’immenso potere dell’arte sulla nostra psiche.

Nota anche come Sindrome di Firenze, venne descritta per la prima volta dallo scrittore francese Stendhal, nel suo libro Roma, Napoli e Firenze. L’autore della Certosa di Parma, sperimentò lui stesso questo fenomeno durante una visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze. Qui fu colto da una crisi che lo costrinse a guadagnare l’uscita dell’edificio al fine di risollevarsi dalla reazione vertiginosa che il luogo d’arte scatenò nel suo animo.

RICERCHE E STUDI

E’ stata una psichiatra italiana a teorizzare per la prima volta questa sindrome: Graziella Magherini, responsabile del Servizio di Salute mentale dell’Arcispedale Santa Maria Nuova di Firenze. Nel 1977, analizzò le reazioni di più di 100 turisti usciti dagli Uffizi, in preda a singolari malori, riuscendo a cogliere tratti fra loro comuni. Le sue ricerche sono raccolte in un libro La sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte.

Nello studio vennero osservati soggetti per lo più di sesso maschile, di età compresa fra 25 e 40 anni e con un buon livello di istruzione scolastica, che viaggiavano da soli, provenienti dall’Europa Occidentale o dal Nord-America che si mostravano interessati all’aspetto artistico del loro itinerario. L’esordio del disagio si presentò poco tempo dopo il loro arrivo a Firenze, e si verificò all’interno dei musei durante l’osservazione delle opere d’arte.

In merito alla sua ricerca, Graziella Magherini affermò “La Bellezza e l’opera d’arte sono in grado di colpire gli stati profondi della mente del fruitore e di far ritornare a galla situazioni e strutture che normalmente sono rimosse”.

Già Freud, sull’Acropoli di Atene, sperimentò uno smarrimento cognitivo, l’opera d’arte come importante mezzo di comunicazione di contenuti inconsci: attraverso dipinti e sculture, infatti, si trasmettono i propri conflitti interiori, i propri traumi, le emozioni, gli istinti sessuali e gli impulsi repressi.

E poi Goethe, Sterne, Proust e Dostoevskij descrissero successivamente nei loro scritti, con differenti emozioni l’effetto che le opere rinascimentali provocarono quando si trovarono dinnanzi al loro cospetto.

I SINTOMI

Sono vari e possono comparire non solo di fronte a opere d’arte, ma anche ascoltando musica. Vertigini, svenimenti, tachicardia, attacchi di panico, addirittura allucinazioni; che potrebbero in alcuni casi sfociare in stati d’ansia prolungati. Come se il cervello andasse in sovraccarico da meraviglia e non potesse contenere tutto ciò che vede senza rimanerne folgorato nel profondo. Più colpite sembrano essere persone particolarmente sensibili e in luoghi ricchi di stimoli artistici, come Firenze appunto.

Sensazioni estatiche, definite però anche patologiche, non a caso la Sindrome di Stendhal ha anche un altro nome: malattia da iperculturemia.

Dalla sua definizione, nel 1977, si è discusso molto in psicologia, e sono molti gli studiosi che affermano che in realtà non esista o che possa essere assimilata ad altre sindromi più generiche e ampie, come quella del viaggiatore.

La Magherini ha anche cercato di capire se alcune opere più di altre fossero responsabili dello scatenarsi della sintomatologia. Michelangelo è risultato essere l’artista che più di altri ha contribuito a scuotere gli animi e nello specifico il suo David. “Il David presenta delle caratteristiche eccezionali: in primo luogo possiede una bellezza anatomica straordinaria e poi, contemporaneamente, è un eroe biblico e, per la città, un eroe civico. Soprattutto, ciò che colpisce chiunque, è il lato estetico: è un bellissimo nudo e ciò riesce a influenzare l’animo di alcune persone rendendole in qualche modo eccitate, depresse e così via, influenzando perciò l’emotività dello spettatore, in un senso o in un altro”.

NEURONI SPECCHIO, CERVELLO E STENDHAL: COSA LI UNISCE?

Grazie alla scoperta dei neuroni-specchio, negli anni ’90 (ne abbiamo parlato in un precedente articolo: EMPATIA: L’ANTIDOTO A PREGIUDIZI, CONFLITTI E DISEGUAGLIANZA) , è più facile ora capire cosa succede nel cervello quando ci si trova di fronte un’opera d’arte. Nelle persone particolarmente sensibili sembra arrivino troppi impulsi visivi nello stesso momento, e che questi producano così un’intensa eccitazione, che si tramuta nei sintomi che abbiamo descritto.

Secondo il neurologo Semir Zeki, siamo dotati di un cervello visivo con cui possiamo cercare di spiegare e capire la creazione artistica. Allo stesso modo siamo dotati di un cervello artistico, prolungamento di quello visivo. Il nostro cervello non è un semplice spettatore passivo che si limita a registrare la realtà fisica del mondo esterno, ma è piuttosto un creativo: ogni volta che vediamo di fatto costruiamo nella nostra testa un’opera d’arte.

La risposta del cervello di fronte all’arte potrebbe non solo fornire spiegazioni maggiori sulla Sindrome di Stendhal, ma anche capire meglio il funzionamento del cervello, le cui logiche non sono ancora del tutto conosciute.

L’APPROCCIO PSICOANALITICO

Secondo l’approccio psicoanalitico chi soffre della Sindrome di Stendhal non gode della bellezza estetica del capolavoro artistico, ma trova trasformati, nell’opera d’arte sotto forma di linguaggio artistico, impulsi, emozioni e conflitti profondi che, se non tollerati ed adeguatamente gestiti, possono provocare, a seconda dei casi, angoscia oppure euforia. Alcune peculiarità di un capolavoro artistico, in un determinato soggetto, in un determinato momento, possono, cioè, acquistare un elevato significato emotivo.

Se si accetta questa prospettiva, si può affermare che la reazione di fronte ad un’opera d’arte dipenda in gran parte dalla disposizione emozionale e dal rapporto che si instaura tra fruitore e creatore nel momento dell’incontro. Infatti, nel momento dell’incontro si animano vicende profonde della realtà psichica e si riattiva la vitalità della sfera simbolica personale. E il viaggio diventa pure, nelle sue soste tanto attese nelle città sognate, un’occasione di conoscenza di sé.

Un concetto, questo del viaggio sentimentale, già proposto da Laurence Sterne (1713-1768), precursore della moderna psicologia. Lo scrittore britannico, infatti, diede all’aggettivo sentimental una connotazione psicologica, per cui i sentimenti divennero moti dell’animo e manifestazioni della sensibilità ed il viaggio metafora di un movimento esistenziale.

COSA FARE SE VENIAMO CATTURATI DA STENDHAL…

Quando il problema persiste nel tempo, è consigliabile andare da un medico specializzato. Nella maggior parte delle volte, a quasi tutti è capitato di rimanere assolutamente affascinati dalla bellezza, fosse per un oggetto d’arte o un’aria musicale. Probabilmente chi arriva al punto di svenire e di provare malessere davanti alla bellezza in sé conserva una sensibilità estremamente accentuata che può risultare difficile da gestire.

Ma è pur vero che la maggior parte di coloro che intraprendono un viaggio in solitudine, in luoghi fortemente suggestivi e capaci di indurre forti reazioni emozionali, possono inciampare in alcuni sintomi propri della sindrome, pur senza conseguenze preoccupanti.

Anche lo scrittore russo Fëdor Michailovic Dostoevskij inciampò in questa sindrome, durante la visione del quadro di Holbein, un volto tumefatto, pieno di ferite sanguinolente. Insomma sono molti coloro che hanno conosciuto la sindrome.

Perdersi nella bellezza, posso sostenere da profano, che sia alla fine una fortuna. Non tutti sanno cogliere l’estetica e il vissuto di un’opera d’arte e se succede, senza lasciare strascichi ovviamente, non può che essere una esperienza arricchente. L’apertura di una porta sulla magnificenza che talvolta dimentichiamo che è solo lì ad aspettarci.

AL VOLANTE E A DIGIUNO DIVENTIAMO TUTTI PIU’ AGGRESSIVI… VI SIETE MAI CHIESTI PERCHE’?

Quando siamo alla guida di un’auto, diventiamo più aggressivi e talvolta anche inaspettatamente violenti. Vi siete mai chiesti perché?

Lo stress al volante e il conseguente sfogo con reazioni aggressive è tra i casi più studiati dagli etologi di violenza urbana. Tanto che è stato dato un nome tecnico alla questione: road rage (rabbia da strada). Secondo gli psicologi evoluzionisti, questo tipo di collera segue uno schema: inizia sempre con insulti e minacce verbali e gestuali, spesso enfatizzati da fari e clacson.

Per fortuna, solitamente, ci si ferma qui. L’auto è una scatola protettiva, e visto che gli esseri umani rifuggono il contatto con gli sconosciuti, difficilmente scendono dal veicolo. Ma ci sono situazioni limite: una di queste è la violazione delle norme implicite della convivenza cittadina. Ci si può infuriare, per esempio, per un parcheggio rubato e perché la mancata cortesia da parte dell’altro automobilista viene vissuta come un’ingiustizia che va vendicata.

Nella nostra specie la vendetta non è solo punitiva ma è spesso soprattutto riparativa: serve a ricomporre l’ordine sociale. E per questo non si esita a metterla in atto, costi quel che costi.

QUANTO E’ DIFFUSA LA ROAD RAGE

Secondo studi internazionali oltre il 50% degli automobilisti è stato coinvolto in almeno un episodio di rabbia al volante. E anche se il 70% di coloro che li hanno provocati è consapevole di aver generato problemi a guidatori o passanti, solo il 14% mostra qualche forma di pentimento, gli altri danno a se stessi l’alibi del cattivo umore.

In fondo, è proprio così: l’aggressività in auto dipenderebbe proprio dal sovraccarico cognitivo, vale a dire dall’attenzione ai numerosi segnali necessari per guidare che attivano nel nostro cervello le stesse aree che, fino a qualche migliaio di anni fa, si attivavano nelle situazioni in cui si poteva incontrare un predatore in agguato.

Gli studi hanno dimostrato che i più soggetti alla road rage sono giovani uomini che vivono in centri urbani oltre i 10 mila abitanti, soprattutto se ulteriormente stressati per ragioni di lavoro.

TIGRI DI CITTA’

Il road rage è soltanto il caso più studiato di reazioni aggressive in caso di stress. Ce ne sono molti altri e tutti legati all’ambiente urbano. Le auto che incrociamo da ogni lato sono come tigri dai denti a sciabola in agguato nella boscaglia.

Gli appartamenti nei grandi condomìni sono rifugi in cui si riuniscono clan pronti ad affrontarsi tra loro. La metropolitana affollata è come la gabbia in cui circolano i topi di laboratorio, con la differenza che mentre i topi a disagio arrivano ad azzannarsi tra loro, noi ci limitiamo a desiderare che la nostra fermata arrivi presto, e in qualche caso non esitiamo a menare qualche gomitata per difendere pochi centimetri residui di spazio.

Nessuna esagerazione: lo dicono etologi e psicologi sociali. La città è una giungla. O meglio, un ambiente al quale la specie umana non si è ancora completamente adattata, capace di stimolare i nostri peggiori istinti (le reazioni aggressive).

Siamo infatti programmati per vivere in piccoli gruppi all’interno dei quali si formano forti legami sociali, proprio come avviene ancora oggi nelle comunità di cacciatori-raccoglitori, ma anche nei paesini di campagna dove tutti si conoscono. Peccato che oltre la metà della popolazione mondiale viva però in centri urbani medio-grandi. È quindi normale che le situazioni di affollamento in cui l’individuo è costretto a convivere con sconosciuti, nei confronti dei quali ognuno di noi nutre un’istintiva diffidenza, diventino a rischio.

In città quindi non sbagliamo se diciamo che diventiamo più pericolosi.
Le ricerche (come quelle appena citate sulla road rage) dimostrano che la ragione è che gli urbanizzati sono molto più stressati. Anzi, secondo i ricercatori dell’Università di Mannheim (Germania), lo stress da città lascia un marchio nel cervello.

Se si mettono delle persone in condizioni di stress sociale, infatti, una piccola zona cerebrale (l’amigdala) si attiva di più se la persona è cresciuta in città. E si attiva di più anche la corteccia cingolata anteriore. L’amigdala è una struttura cerebrale grande come un pisello che si trova in entrambi i lobi temporali, in profondità, e svolge la funzione di sensore del pericolo, provocando una reazione nell’organismo non appena viene percepita una minaccia. La corteccia cingolata è anch’essa coinvolta nell’elaborazione della risposta al pericolo. Risposta che, ovviamente, può essere aggressiva.

COME LA METTIAMO CON IL CIBO?

A renderci più reattivi e aggressivi è anche la fame. Non a caso, tutti, se costretti al digiuno, diventiamo intrattabili. La colpa però non è vostra: a provocare parte delle scenate e urla isteriche in orario da pasto sono i bassi livelli di glucosio nel sangue.

Il controllo degli stimoli aggressivi richiede energia, e il glucosio è l’unica fonte energetica accettata dal nostro cervello. Se non ne produciamo abbastanza, la rabbia ha la meglio sulle buone maniere: è scientificamente dimostrato.

In un recente studio, i ricercatori della Ohio State University hanno monitorato i livelli di aggressività di entrambi i membri di 107 coppie di coniugi per tre settimane. Ai soggetti sono state fornite bamboline voodoo con 51 spilloni, per rappresentare la “dolce” metà, ed è stata data la possibilità di assordare il coniuge con rumori più o meno molesti. Chi aveva livelli di glucosio nel sangue più bassi ha inflitto più punture nelle bambole, e torturato il partner con rumori più lunghi e fastidiosi, di chi mostrava livelli di zucchero nella norma.

Altre ricerche hanno dimostrato, per esempio, che chi beve limonata zuccherata si comporta, nei minuti seguenti, in modo più pacifico di chi ha bevuto un placebo. Molto dipende, naturalmente, anche dalla velocità e dall’efficienza con cui l’organismo metabolizza il glucosio. Ecco perché, a parità di ore di digiuno, alcuni risultano più simpatici di altri.

TUTTA COLPA DEI NEURONI

Nello specifico della rabbia i ricercatori del Karolinska Institutet in Svezia hanno individuato il gruppo di neuroni che fa scattare i comportamenti aggressivi… nei topi.

In realtà oltre ad averli scoperti, sono riusciti a manipolarli, arrivando a controllare il comportamento dei roditori.

I ricercatori svedesi hanno rivolto la loro attenzione a un piccolo gruppo di neuroni, quelli del nucleo premamillare ventrale, dell’ipotalamo, la centralina del cervello che controlla molti degli istinti legati ai bisogni fondamentali, dal sonno all’appetito. Sarebbero proprio queste cellule a svolgere un ruolo chiave nei comportamenti aggressivi.

Studiando le interazioni tra topi maschi, gli scienziati avevano già notato che gli animali che si dimostravano più aggressivi verso un nuovo compagno messo nella loro gabbia erano anche quelli che avevano una maggiore attività nei neuroni del nucleo premamillare ventrale dell’ipotalamo.

Usando tecniche di optogenetica, che consentono di “accendere” o “spegnere” particolari gruppi di cellule in topi geneticamente modificati, gli scienziati sono anche riusciti a controllare questo comportamento, rendendo aggressivi i topi anche in situazioni in cui normalmente questi animali non attaccano, o al contrario “calmandoli” quando l’aggressione era già scattata.

Non solo. Per studiare la dominanza sociale si utilizza il  cosiddetto “test del corridoio”, in cui due topi vengono fatti avanzare uno verso l’altro in un tubo stretto, per determinare qual è quello più in alto nella gerarchia. Controllando i neuroni del nucleo premamillare, i ricercatori sono riusciti a scambiare la gerarchia, e a trasformare il topo dominante in subalterno e viceversa.

Conoscendo meglio i comportamenti legati all’aggressione si potrà arrivare un giorno a controllarla? Questa è la domanda a cui la scienza non ha ancora una risposta, ma che interessa tutti, in un modo o in un altro. Aggressori e aggrediti, automobilisti e pedoni, chi è calmo e chi è sempre sotto stress. Nel frattempo, ci possiamo sempre sfogare su bamboline voodoo, sapendo che almeno lì danni non ne facciamo…