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CYBERBULLISMO: QUANDO LE PAROLE UCCIDONO

Un ragazzo su tre dice di essere stato vittima di atti di bullismo online, 1 su 5 di aver lasciato la scuola proprio per questo. E’ il risultato di un sondaggio condotto dall’Unicef su un campione di 170mila ragazzi fra i 13 e i 24 anni di 30 diversi Paesi, che ha allarmato il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia e i partner della ricerca.

Parlando apertamente e in anonimato attraverso la piattaforma Unicef per il coinvolgimento dei giovani (U-Report), tre quarti degli adolescenti hanno dichiarato che i social network, fra cui Facebook, Instagram, Snapchat e Twitter, sono i luoghi in cui si verifica più comunemente il bullismo online. “Avere classi ‘connesse’ significa che la scuola non finisce più quando l’alunno esce dall’aula, e, sfortunatamente, non finisce nemmeno il bullismo scolastico”, ha dichiarato il Direttore generale dell’Unicef Henrietta Fore. “Migliorare l’esperienza formativa dei giovani significa dar conto dell’ambiente che incontrano, sia online sia offline. In tutto il mondo, i giovani ci stanno dicendo che sono stati bullizzati online, che ciò sta colpendo la loro istruzione e che vogliono che finisca”.

E anch’io, nel mio piccolo, non potevo non parlare di un fenomeno tanto dilagante, essendo febbraio il mese della sensibilizzazione e in particolare il 7 febbraio la Giornata Nazionale contro bullismo e cyberbullismo.

Solo nelle scuole secondarie di Roma, la città in cui sono nato e cresciuto, su un campione di 1022 studenti, è emerso che il 66,9% dei giovani è stato, almeno una volta, vittima di bullismo e che l’81.3% è stato spettatore. Il 57,3% delle vittime afferma di aver subito episodi di violenza all’interno della classe; il 34,9% all’interno degli istituti scolastici.

Difficile non riflettere su quanto bullismo e cyberbullismo siano piaghe sociali dilaganti.

IL BULLISMO

Il termine bullismo è utilizzato per designare un insieme di comportamenti in cui qualcuno, ripetutamente, fa o dice cose per avere potere su un’altra persona e dominarla.

Il bullo è caratterizzato da:

  • trova piacere nell’insultare, picchiare o cercare di dominare la vittima, anche quando è evidente che stia molto male ed angosciata
  • continua per un lungo periodo, con una progressiva crescita delle violenze che fa diminuire la stima di sé da parte della vittima
  • ha un maggior potere della vittima a causa dell’età, della forza, del genere (il maschio è più forte della femmina) o della popolarità nel gruppo di coetanei

Esistono, dunque, due forme di bullismo:

  • diretto, che a sua volta si divide in fisico (pugni, calci, sottrazione di oggetti con l’intento di rovinarli) e verbale (derisione, insulti, prese in giro, messa in evidenza degli aspetti razziali, dell’orientamento sessuale ecc.)
  • indiretto, tramite la diffusione di pettegolezzi fastidiosi o storie offensive, l’esclusione dai gruppi di aggregazione, ecc.

IL CYBERBULLISMO

Il cyberbullismo è un atto aggressivo, intenzionale condotto da un individuo o un gruppo usando varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel tempo contro una vittima che non può facilmente difendersi. Ha caratteristiche identificative proprie: il bullo può mantenere nella rete l’anonimato, ha un pubblico più vasto, ossia il Web, e può controllare le informazioni personali della sua vittima.

Nel 2006, la direttrice del Center for Safe and Responsible Internet Use statunitense, Nancy Willard, ha proposto una categorizzazione del fenomeno, basata sul tipo di comportamento. Le tipologie di cyberbullismo individuate sono sette, e sono attualmente prese in considerazione per distinguere i vari casi:

  • flaming: invio di messaggi volgari e aggressivi tramite gruppi online, email o messaggi, con l’unico scopo di creare conflitti verbali all’interno della rete fra due o più persone. Flame è un termine inglese che vuol dire fiamma, da cui deriva il comportamento di “accendere” una discussione verso una o più persone
  • harassment: molestie effettuate tramite canali di comunicazione con azioni, parole e comportamenti persistenti verso una singola persona, che causano disagio emotivo e psichico, creando una relazione sbilanciata tra il cyberbullo e la vittima, che subisce passivamente le molestie, senza potersi difendere e porre fine ad esse.
  • cyber-stalking: persecuzione attraverso l’invio ripetitivo di minacce, allo scopo di infastidire, molestare e terrorizzare le vittime facendo loro pensare di non essere più al sicuro neanche tra le mura di casa.
  • denigration: pubblicazione nella rete o tramite sms di fake news (notizie false), allo scopo di danneggiare la reputazione o le amicizie della vittima. Le nuove tecnologie digitali, come i social network, permettono di compiere questo atto di cyberbullismo con estrema facilità e rapidità: in poco tempo, moltissime persone potranno essere a conoscenza di queste affermazioni diffamatorie. Il processo di denigrazione colpisce generalmente aspetti centrali della personalità del soggetto come l’orientamento sessuale, l’appartenenza etnica, difetti fisici, difficoltà scolastiche e situazioni familiari.
  • masquerade: appropriazione dell’identità virtuale della vittima per compiere una serie di azioni che ne danneggiano la reputazione. Può aprire un nuovo profilo sui social network fingendo di essere la vittima oppure può agire da hacker per ottenere le credenziali d’accesso all’account della vittima compiendo azioni dannose.
  • exclusion: esclusione intenzionale di una persona da un gruppo online come WhatsApp e Facebook, chat varie, forum e anche giochi online.
  • trickery: ingannare o frodare intenzionalmente una persona

Nel 2007, è stata introdotta dall’educatore Smith una nuova forma di cyberbullismo:

Happing shapping: il cyberbullo, da solo o in gruppo, riprende la vittima con lo smartphone mentre la picchia. Il video poi viene pubblicato sul web allo scopo di deridere la vittima.

Bullismo e cyberbullismo sono fenomeni complessi che non possono essere sottovalutati, anche perché capaci di lasciare sulle vittime cicatrici indelebili.

A supporto di questo dato sconcertante, uno studio inglese ha cercato di stabilire un legame tra cyberbullismo e comportamenti a rischio suicidario, individuando, nei soggetti coinvolti nel fenomeno, vittime, bulli e bulli-vittime, la tendenza ad entrare in contatto con contenuti web riguardanti autolesionismo o suidicio.

CYBERBULLISMO E SUICIDIO: lo studio

Lo studio, condotto da Anke Gorzig (LSE’s Department of Media and Communications) ha portato all’attenzione il legame tra cyberbullismo e alcuni comportamenti disfunzionali, che potrebbero essere predittori di tendenze suicidarie.

In particolare, è stato utilizzato un campione composto da 25 mila bambini europei tra i 9 e i 16 anni. Il 6% del campione riportava di essere vittima di cyberbullismo, il 2,4% riportava di compiere atti di cyberbullismo e un 1,7% di essere sia vittima sia bullo. Di questi, il 4,1% riportava problemi nella gestione delle emozioni, il 16,8% problemi comportamentali, il 15,8% aveva problemi a relazionarsi con i propri pari.

Per quanto riguarda i comportamenti, è stata presa in considerazione la visione di contenuti web riguardanti autolesionismo o suicidi.

Nell’intero campione il 6,8% dei soggetti riportava la visione di contenuti web di autolesionismo, il 4,3% visionava contenuti web riguardanti il suicidio. Questi soggetti costituivano una bassa percentuale di coloro i quali non erano coinvolti in fenomeni di cyberbullismo. Invece, circa 1/5 dei delle vittime e dei bulli e 1/3 dei soggetti sia bulli sia vittime, era in contatto con contenuti web di autolesionismo; inoltre tra le vittime di cyberbullismo e tra coloro che ricoprivano il ruolo sia di vittime sia di bulli, era alta la percentuale di bambini che entravano a contatto con contenuti web riguardanti suicidi, mentre questa percentuale rimaneva bassa per i soggetti identificati solo come bulli.

Il trend relativo a chi entrava a contatto con contenuti di autolesionismo era due volte più alto per il gruppo delle vittime e per il gruppo dei bulli, e da tre a quattro volte più alto per i bulli-vittima, rispetto al gruppo di soggetti non coinvolti nel fenomeno; invece il trend relativo a chi entrava in contatto con contenuti di suicidio era da due a tre volte più alto per le vittime e per i bulli-vittima, rispetto al gruppo di soggetti non coinvolti.

C’è poco da aggiungere a questi dati, se non che occorre agire per prevenire un comportamento che sembra espandersi come un incendio in una giornata di forte vento, con il rischio che diventi non solo dilagante ma inarrestabile.

LE STRATEGIE IN AIUTO AI PIU’ GIOVANI

Per fortuna alcune strategie preventive si possono attuare, utili soprattutto ai più giovani:

  • Non fornire mai informazioni personali, le password, numeri PIN, ecc .
  • Non credere a tutto quello che si vede o si legge, non è detto che sia la verità.
  • Usare la gentilezza con gli altri che sono on-line, proprio come si farebbe off-line. Se qualcuno usa toni sgarbati o minacciosi è meglio non rispondere. I Bulli online sono proprio come off-line.
  • Non inviare un messaggio quando si è arrabbiati. Attendere fino a quando si ha avuto il tempo di pensare.
  • Non aprire un messaggio da qualcuno che non si conosce. In caso di dubbio è bene rivolgersi ai genitori, tutori o un altro adulto.
  • Durante la navigazione in Internet, se si trova qualcosa che non piace, che fa sentire a disagio o  spaventa, spegnere il computer e raccontare l’accaduto un adulto.
  • Concedetevi una pausa da Internet, mettendo la modalità off-line per trascorrere del tempo con la famiglia e gli amici.
  • Se si è stati vittima di un cyberbullo è importante parlare con un adulto che si conosce e di cui si ha fiducia.
  • Non cancellare o eliminare i messaggi dei cyberbulli. Non c’è bisogno di rileggerlo, ma tenerlo è la prova.
  • Non organizzare un incontro con qualcuno conosciuto online a meno che i genitori non vengano con te.

CONSIGLI PER I GENITORI

E se fosse il genitore a dover chiedere aiuto per i propri figli? Per capire se il proprio figlio o figlia è vittima di Cyberbullismo, ecco i segnali più evidenti a cui porre attenzione

  • Utilizzo eccessivo di internet.
  • Chiudere le finestre aperte del computer quando si entra nella camera.
  • Rifiuto ad utilizzare Internet.
  • Comportamenti diversi dal solito.
  • Frequenti invii attraverso Internet dei compiti svolti.
  • Lunghe chiamate telefoniche ed omissione dell’interlocutore.
  • Immagini insolite trovate nel computer.
  • Disturbi del sonno.
  • Disturbi dell’alimentazione.
  • Disturbi psicosomatici (mal di pancia, mal di testa, ecc).
  • Mancanza di interesse in occasione di eventi sociali che includono altri studenti.
  • Chiamate frequenti da scuola per essere riportati a casa.
  • Bassa autostima.
  • Inspiegabili beni personali guasti, perdita di denaro, perdita di oggetti personali.

Ascolto, consapevolezza, informazione e prevenzione sono le parole chiave su cui non si può prescindere. Al proposito, suggerisco la guida per genitori su come parlare di Internet ai figli realizzata da Unicef Italia insieme a Unicef Malesia, Digi e Telenor Group. Una lettura semplice ma efficace che non solo aiuta a sensibilizzare su un problema ancora sottovalutato, ma spinge già verso la prevenzione.

 

LA SINDROME DI STOCCOLMA: quando gli ostaggi solidarizzano con i rapitori e le vittime difendono i carnefici

Patricia Campbell, nel 1974, a 19 anni, fu rapita dallo SLA (esercito di liberazione simbionese), famigerato gruppo di estrema sinistra responsabile di molti crimini nell’America degli anni ’70. Dopo due mesi di reclusione Patty si unì attivamente al gruppo partecipando a diverse rapine in banca.

Gianni Ferrara, venne rapito all’età di 8 anni, mentre si trovava con la famiglia ai Caraibi e portato in Venezuela da 5 agenti di polizia dello Stato di Zulia che chiesero un riscatto di 650 milioni di lire. Gianni negli oltre 2 mesi di sequestro si affezionò a tal punto ai rapitori che quando questi vennero arrestati inveì contro la polizia.

Clara Rojas, politica colombiana, rapita nel 2002 dalle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane), si innamorò di uno dei suoi rapitori dalla cui relazione nacque un bambino.

Shawn Hornbeck, 11 anni, rapito nel 2002 e ritrovato per puro caso nel 2007 mentre le autorità cercavano un altro bambino rapito dallo stesso sequestratore, Michael Devlin. Inizialmente Michael avrebbe voluto uccidere Shawn per eliminare il testimone di quella che fu una violenza carnale su minore, ma Shawn gli avrebbe proposto di divenire il suo schiavo personale in cambio della vita. Tre anni dopo il suo rapimento, Shawn mandò dal proprio cellulare dei messaggi ambigui ai genitori:  in uno chiedeva per quanto ancora avessero intenzione di cercare loro figlio, in un altro (scritto 57 minuti dopo), si scusava e chiedeva se avrebbe potuto scrivere una poesia per loro. Questi messaggi erano firmati Shawn Devlin.

C’è una cosa che accomuna tutte queste persone: il rapporto indissolubile, quasi perverso che sconfina nell’amore fra vittima e carnefice. E dal nome singolare: Sindrome di Stoccolma

COSA E’ LA SINDROME DI STOCCOLMA

E’ un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta quando chi è vittima di un particolare tipo di violenza fisica e/o psicologica, sviluppa un sentimento positivo nei confronti del suo aguzzino, del suo carnefice, che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice.

LA STORIA

Il nome origina da un caso di sequestro di persone avvenuto il 23 agosto 1973, quando Jan-Erik Olsson, evaso dal carcere di Stoccolma dove era detenuto per furto, tentò una rapina alla Sveriges Kredit Bank e prese in ostaggio tre donne e un uomo.

La prigionia e la convivenza forzata degli ostaggi con il rapinatore in spazi angusti durò sei giorni.  Il rapporto che sviluppò fu tale che quando Olsson disse alla polizia che avrebbe sparato alla gamba dell’uomo in ostaggio, questi pensò che il suo carceriere fosse stato gentile a voler sparare solo alla gamba e non a lui. Quando poi gli ostaggi vennero liberati quest’ultimi si preoccuparono dell’incolumità dei propri carcerieri e dopo essere usciti dall’edificio, si abbracciarono reciprocamente. Successivamente le vittime continuarono a provare sentimenti contrastanti e apparentemente irrazionali nei confronti dei rapitori. Gli psichiatri spiegarono che gli ostaggi erano diventati emotivamente debitori ai loro rapitori, e non alla polizia, perché non li avevano uccisi.

Nel corso delle sedute psicologiche cui i sequestrati vennero sottoposti si manifestò un senso positivo verso i malviventi che “avevano ridato loro la vita” e verso i quali si sentivano in debito per la generosità dimostrata.

COSA ACCADE NELLA MENTE DELLE VITTIME

Benché a livello cosciente si possa credere che, in una situazione di sequestro, il comportamento più vantaggioso per il sequestrato sia “farsi amico” il sequestratore, in realtà la Sindrome di Stoccolma non deriva da scelta razionale, bensì come riflesso automatico. La sindrome, comporta un elevato stato di stress psicofisico, che aumenta a mano a mano che i protagonisti sembrano accettare la convivenza in un ambiente minaccioso che li costringe a nuove situazioni di adattamento, e alla conseguente regressione a precedenti stadi di sviluppo della personalità.

Questo “legame positivo”, tuttavia, scaturente da una convivenza in qualche modo involontaria, interessa, indistintamente, sia l’ostaggio sia il carceriere: cementando sempre più il legame tra le due entità, sviluppa il concetto di un “NOI qui dentro” contro un “LORO che stanno fuori”.

L’ostaggio reagisce come può all’estremo stato di stress cui è sottoposto: una delle prime reazioni, rifugio psicologico primitivo, ma emotivamente efficace, è la negazione. Per sopravvivere la mente reagisce tentando di negare quanto sta avvenendo.

Solo dopo qualche tempo l’ostaggio comincia a rendersi conto, ad accettare e a temere la propria situazione, ma trova un’altra valvola di sicurezza nel pensare che non tutto è perduto poiché presto interverrà la polizia per salvarlo. La certezza di una salvezza “garantita” dall’Autorità, aiuta l’ostaggio nella propria difesa mentale, ma più passa il tempo senza che accada nulla -e in casi simili è facile perdere la cognizione del trascorrere dei minuti e delle ore-, più l’ostaggio tende inconsciamente a rinnegare l’autorità costituita che è diventata per lui, di fatto, una incognita. Logica conseguenza è l’inizio del processo di immedesimazione, o di “identificazione”, con il carceriere.

Nel contempo aumenta sempre più il timore di una conclusione tragica e tutti gli ostaggi intervistati hanno dichiarato di aver approfittato dell’occasione per fare un resoconto della propria vita; tutti hanno giurato a se stessi di cambiarla in meglio una volta terminata la brutta avventura, quasi che quest’ultima costituisse lo spartiacque tra la “vecchia” vita e una “rinascita”, completamente avulsa e indipendentemente dalla precedente.

Quando ostaggio e rapitore si trovano all’interno di uno stesso locale, magari angusto, sia esso il caveau di una banca, o la fusoliera di un aereo, una casa, una grotta, un treno, o altro ancora, si sviluppa un rapporto di “convivenza” che favorisce, e accelera, il reciproco processo di “umanizzazione”. In tal senso, quanto più il carceriere riesce a compenetrarsi nei problemi dell’ostaggio, o viceversa, tanto più aumenteranno le possibilità di sopravvivenza.

Alcune vittime di sequestri, che provarono la sindrome, a distanza di anni sono ancora ostili alla polizia. Le vittime della rapina alla Kreditbank di Stoccolma per lunghissimi anni si sono recate a far visita ai propri carcerieri, e una di esse ha sposato Olofsson. Altre vittime hanno cominciato a raccogliere fondi per aiutare i propri ex-carcerieri e molte si sono rifiutate di deporre in tribunale contro i sequestratori, o anche solo di parlare con i poliziotti che avevano proceduto all’arresto.

GLI STATI EMOTIVI VISSUTI DALLA VITTIMA

Tentando una schematizzazione su quanto finora detto, potremmo individuare la sequenza degli stati emotivi che vive un ostaggio anche per prevenirli o almeno per meglio comprenderli:

  1. Incredulità
  2. Illusione di ottenere presto la liberazione
  3. Delusione per la mancata, immediata, liberazione da parte dell’autorità
  4. Impegno in lavoro fisico o mentale
  5. Rassegna del proprio passato

Nella stragrande maggioranza, la prima esperienza che accomuna tutti coloro che cadono sotto l’effetto della sindrome, è il contatto positivo con il carceriere. Tale contatto non deriva tanto dal comportamento materiale del carceriere, bensì da ciò che questi potrebbe fare e NON fa (percosse, violenza carnale, maltrattamenti in genere, ecc.). E tuttavia, alcuni ostaggi feriti dai propri carcerieri, hanno ugualmente sperimentato lo stato di sindrome poiché si sono convinti che le violenze patite, le ferite riportate, si erano rese necessarie per tenere sottocontrollola situazione o, ancor più, erano giustificate da una loro reazione o resistenza.

Un’altra esperienza che accomuna gli ostaggi è l’immedesimazione nelle qualità umane dimostrate dal carceriere, anche quando queste siano state di breve durata.

Nei casi di rapina con ostaggi, se è vero che il rapinatore armato si trova “in trappola” e si ritiene “vittima” della polizia, è altrettanto vero che anche l’ostaggio tende a condividere tale atteggiamento. Quando il rapinatore viene sorpreso dalla polizia ed è “costretto” a prendere ostaggi, il suo problema è chiaro: fuggire vivo e, possibilmente, con i soldi. L’ostaggio si trova nella stessa identica posizione: vuole uscire vivo; il suo carceriere certo glielo consentirebbe, ma è la polizia a impedirlo. Il rapinatore si “umanizza”, perciò, agli occhi dell’ostaggio, è diventato “persona”, con problemi identici ai propri. L’insistenza della polizia nel richiedere al bandito di arrendersi, non fa altro che prolungare la prigionia e allontana la speranza di riguadagnare la libertà senza danni fisici.

Matura così, nella mente dell’ostaggio, il convincimento che: “se la polizia va via, anch’io me ne vado; se la polizia lascia andare il bandito, anch’io sarò libero!”. Comincia così la Sindrome di Stoccolma e, d’altro canto, il legame positivo, l’“umanizzazione” e il “rendersi persona”, che è alla base della sindrome, si può manifestare non solo nell’ostaggio, ma anche nel carceriere.

Dalla banca dati dell’FBI statunitense risulta che circa l’8% degli ostaggi ha manifestato sintomi della sindrome di Stoccolma.

LA SINDROME AL CINEMA

Se la tematica vi ha incuriosito, non potete perdervi alcune pellicole che sapranno ancor più di questo post, portarvi a vivere (in totale sicurezza) la sindrome di Stoccolma

  • Rapina a Stoccolma (2018): il film basato sulla rapina alla Sveriges Kredit Bank di Stoccolma e da cui prende il nome la Sindrome
  • Un mondo perfetto: l’evaso rapisce un bambino e fugge attraverso il Texas. Durante il viaggio il bimbo sviluppa un legame tipico della sindrome di Stoccolma.
  • Il portiere di notte: la protagonista instaura un rapporto ossessivo e indissolubile con l’uomo che la teneva prigioniera nel campo di concentramento durante la II guerra mondiale
  • John Q: le persone sequestrate da un padre che non può far trapiantare il cuore del figlio si schierano dalla parte del loro sequestratore.
  • Quel pomeriggio di un giorno da cani